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Birra artigianale… se la conosci, la bevi con più gusto!

Intervista a Silvio Coppelli, socio del Birrificio Rurale di Desio (MB).

Lo dico spesso… chi semina raccoglie, anche con i figli. Il mio, ad esempio, a furia di sentirmi parlare di scelte consapevoli e di produzioni di qualità, è diventato molto più attento nei suoi acquisti. Si tiene informato, ha spirito critico, ma soprattutto ricerca buoni assaggi. Col tempo, saranno le esperienze gustative e la sua buona curiosità a fare il resto.

Tra le produzioni che predilige c’è la birra artigianale, una bevanda che raccoglie sempre più consensi, sia tra i giovani che i meno giovani. A dir la verità ho il sospetto che prima o poi se la farà da solo! Parlandone insieme mi sono resa conto però che il suo approccio al mondo della birra non è ancora del tutto consapevole.

La birra è un prodotto vivo, e conoscerla è una vera esperienza che affascina e che permette di berla con più gusto.

È stato questo il motivo che mi ha convinto ad organizzare insieme a lui una visita al Birrificio Rurale di Desio. Una realtà produttiva in provincia di Monza e Brianza, che dal 2009, ha trasformato la passione di un gruppo di amici birrofili in un’attività di produzione artigianale. Grazie alla guida esperta di Silvio Coppelli – birraio e socio del birrificio – ha potuto seguire le varie fasi che portano alla produzione della birra, e nel contempo, a comprenderne meglio il glossario. Una conoscenza che oltre ad aver arricchito la sua cultura birraria, gli permetterà di orientarsi con più consapevolezza verso la qualità.

Qualche dato relativo al 2017, un anno di crescita per la birra italiana. (fonte AssoBirra)

  • Consumi di birra pro-capite: 31,8 litri (nel 2007: 31,1 litri)
  • Produzione: 15,6 milioni di hl (nel 2007: 13,4 milioni di hl)
  • Export: 2,7 milioni di hl (nel 2007: 1.1 milioni di hl)
  • Import: 6,4 milioni di hl (nel 2007: 6,1 milioni di hl)
  • Percentuale sui consumi: 37,6% fuori casa – 62,4% in casa (nel 2007: 45,5% fuori casa – 54,5% in casa)

Ciò premesso, passo la parola a Silvio Coppelli.

  • Silvio, direi che un po’ di ripasso sul significato dei termini fa sempre bene. Cosa si intende per birra artigianale?

Ti riporto la definizione che recentemente è stata approvata in Parlamento: “Si definisce birra artigianale la birra prodotta da piccoli birrifici indipendenti, cioè non legati economicamente e legalmente ad altri birrifici, la cui produzione non superi i 200mila ettolitri/anno e non sottoposta, durante la fase di produzione, a processi di pastorizzazione e microfiltrazione.” Da parte mia aggiungerei ‘romanticamente’ una birra in cui si riconosce la mano del birraio, ma capisco che questo non sia possibile da parametrizzare.

  • Come avviene la degustazione della birra?

La degustazione coincide bene o male con quella del vino: analisi visiva, analisi olfattiva e analisi gustativa; nel caso della birra la visiva è un po’ più dettagliata, perché oltre al colore si valutano limpidezza, quantità di schiuma e tenuta della stessa. Per il resto si descrivono i profumi (e a volte i difetti), corpo, gusto, sensazioni boccali, equilibrio e, ovviamente, piacevolezza.

  • Bere birra spillata o semplicemente versata? Quali sono le differenze?  

Birra spillata o versata le differenze sono minime se ‘ben spillata’ e ‘ben versata’! In alcuni casi ci possono essere piccole differenze tra birra in fusto e birra in bottiglia, per esempio in caso di birre rifermentate, date dal differente volume in cui avviene la rifermentazione.

  • Ogni birra richiede il bicchiere giusto. Dico bene?

Anche per le birre vale la regola del bicchiere adatto alla tipologia di birra; ci sono birre che devono preservare i profumi delicati e che prediligono bicchieri ad apertura stretta e birre che devono ossidarsi leggermente e necessitano bicchieri più ampi; io ritengo però che con 3-4 tipi di bicchieri si possa garantire un buon servizio per il 90% delle birre.

  • La presenza della schiuma sulla birra è necessaria?

Assolutamente! Se si esclude la tipologia delle Ale inglesi che per tradizione ne prevede pochissima (e infatti la birra si ossida leggermente) la schiuma serve per proteggere la birra dall’ossidazione che altera i profumi, soprattutto quelli legati ai luppoli.

  • Birre chiare poco alcoliche, birre scure molto alcoliche… leggenda o verità?

Assolutamente falso! Il colore di una birra è dato sovente da una piccola quantità di malti tostati nella miscela; il grado alcolico è dato dalla quantità di malto utilizzato, non dalla composizione della miscela degli stessi; per fare un esempio, la Duvel è una birra di un bel dorato brillante con una testa di schiuma bianchissima, ed ha oltre otto gradi alcolici, mentre una classica Stout, nerissima, ne ha poco più della metà. Il consumatore è spesso ingannato perché in effetti diversi stili birrari di elevato grado alcolico, hanno colorazioni che vanno dall’ambrato carico al testa di moro, ma, ripeto, non è assolutamente scontato.

  • Chi serve birra raramente è preparato con dei corsi di formazione. Quanto incide nella degustazione una birra servita male, e in questo caso, come andrebbe servita?  

Un buon Publican deve assolutamente saper servire una birra correttamente, è il suo lavoro! Una birra servita male è assolutamente ‘non degustabile’ ma solo ‘bevibile’. Non ha senso degustare una tipologia di birra servita ad una temperatura sbagliata piuttosto che nel bicchiere sbagliato, o versata senza la sua corretta testa di schiuma. Inoltre il bicchiere deve essere sempre pulito e non lavato con brillantante, perché uccide la schiuma. Va sempre sciacquato prima di versare la birra.

  • Dai dati di AssoBirra – l’Associazione dei Birrai e dei Maltatori emerge la tendenza degli italiani di prediligere il consumo di birra a casa rispetto al consumo fuori casa. Qual è la tua esperienza a proposito, e quali i consigli per conservarla al meglio?

Visto che in questo caso si parla di birra in generale, e non solo di artigianale, a parer mio il fenomeno è dovuto purtroppo al costo; la situazione economica di questi anni si fa sentire e ormai tra grande distribuzione, shop on line e, più professionalmente, beer shop, il consumatore dispone di un’ampia possibilità di provare birre che fino a qualche anno fa si trovavano solo nei locali specializzati, a un costo decisamente più accessibile. Per quanto riguarda la birra artigianale – che già di suo ha dei costi ‘importanti’ – ma ha dei consumatori disposti a spendere un pochino di più, penso che una piccola parte dello spostamento del consumo tra le mura domestiche sia dovuto ad un crescente interesse per la degustazione, e, spesso, in un luogo pubblico non c’è la necessaria tranquillità per un’analisi approfondita del prodotto. Comunque ritengo che una buona birra, servita con cura in un locale ben gestito, sia sempre un gran piacere che ci si dovrebbe togliere spesso!

Per quanto riguarda la conservazione l’ideale sarebbe al buio, e fin qui è abbastanza facile, e a temperatura il più possibile costante; al di sotto dei 15 gradi direi si possa stare abbastanza tranquilli, anche se tengo a precisare che la maggior parte delle birre danno il meglio se bevute giovani, e per questo, non ha molto senso conservarle a lungo.

  • Micro birrifici: in Italia superano la quota 850, di cui per la maggiore presenti in Lombardia. Un successo di numeri e di produzioni che vanta anche il primo stile birraio italiano – l’Italian Grape Ale – che ha portato alla produzione di una birra con un ingrediente proveniente dalla filiera dell’uva del vino. È tra i vostri progetti futuri?

Per il momento è uno dei tanti progetti – tra l’altro molto interessante – ancora allo stato embrionale.

  • Da gennaio 2019 ci sarà un ulteriore riduzione delle accise sulla birra. Una notizia positiva che premia il vostro lavoro. Credo però che anche una semplificazione burocratica sarebbe ben accolta. Quali sono le vostre difficoltà maggiori a tal proposito?

La riduzione delle accise è certamente una buona notizia. Per quanto riguarda la burocrazia, lo sappiamo, è un problema comune a tutte le attività; nel nostro settore, in più, al momento c’è ancora parecchia confusione per quanto riguarda registri, dichiarazioni varie, sistemi di inoltro delle stesse oltretutto non regolate in modo uniforme sul territorio. Unionbirrai sta facendo parecchio in questo campo, ma ci vorrà ancora un bel po’ di tempo.

Riprendo la parola…

Birra artigianale, un trend in continua crescita che vede protagonista soprattutto giovani realtà imprenditoriali. L’avvio del corso di laurea in Tecnologie Birrarie all’interno della laurea triennale in “Scienze e Tecnologie Agroalimentari” ne è la riprova.

Birrificio Rurale  www.birrificiorurale.itVia del Commercio 2,  Desio (MB)

 




Angelica Lodi, una cuoca che non si china… se non sui piatti!

Angelica Lodi, classe 1996. Il suo motto: “Mai china, se non sui piatti!”

Una giovane cuoca del ristorante La Chiocciola di Portomaggiore, in provincia di Ferrara, che ho avuto il piacere di conoscere a ‘Il Festival della Gastronomia’ di Milano – il format ideato da Luigi Cremona e Lorenza Vitali – durante il quale si sono sfidati ragazzi under 30 per la selezione del ‘Miglior Chef Emergente 2019 del Nord’.

Dalla giuria ho potuto osservare la loro attenzione nella preparazione dei piatti, che, all’assaggio, hanno evidenziato l’impegno con cui si sono presentati. Giovani talentuosi con un ruolo importante per il futuro del Sistema Italia. Saranno infatti anche le loro scelte a contribuire alla valorizzazione della filiera agroalimentare. Una responsabilità che ogni cuoco esercita ogni qualvolta si appresti a preparare un piatto.

Luigi Cremona e Angelica Lodi a ‘Il Festival della Gastronomia’ di Milano

Vi presento Angelica Lodi…

  • Angelica, partiamo dal Festival della Gastronomia. Durante la gara alla quale hai preso parte mi ha colpito la tua tenerezza, non oscurata dalla determinazione necessaria al ruolo che hai scelto per il futuro. L’assaggio del tuo piatto, poi, mi ha confermato la tua preparazione. Come e quando è iniziata questa tua passione per la cucina?

Alle scuole elementari.  Non so esattamente il motivo… questa passione non l’ho presa da nessuno. Per certo veder cucinare e poter aiutare mi ha sempre appassionata e incuriosita fin da piccola.

“Come fosse un cappellaccio…” un piatto che nasce dalla creazione di un assoluto di zucca.

  • Hai scelto un mestiere impegnativo, che per una donna lo è ancora di più. Le difficoltà non sono certo da imputare alle capacità personali, ma alle esigenze familiari che sorgono col tempo. Conseguentemente a ciò, affermarsi in questo settore prettamente maschile comporta molti sacrifici, sempre che questo sia il tuo desiderio?

Certo, quando avrò una famiglia sicuramente medierò gli impegni professionali con le esigenze familiari. Tra le mie ambizioni ho quella di aprirmi una gastronomia di qualità, che mi permetta alla sera di passare un po’ di tempo a casa.

  • Mi capita spesso di sentire gli chef lamentarsi a proposito della scarsa formazione che riscontrano – a livello pratico – nei cuochi neodiplomati. Cosa ti senti di rispondere a tal proposito?

Hanno ragione. Purtroppo le scuole si focalizzano sempre di più sulla teoria piuttosto che sulla pratica. Nonostante ciò, in quelle poche ore, con il massimo impegno, si cerca di apprendere il più possibile degli insegnamenti.

  • Nonostante la tua giovane età, ti senti di dare un consiglio ai giovani che scelgono questo percorso professionale?

Questo lavoro è tanto bello quanto difficile. Ecco il mio consiglio: “Ragazzi, se non mettete determinazione, passione, costanza e tanto sacrificio, fate a meno di intraprendere questo percorso, perché senza tutto questo durereste meno di un mese.

  • Un’ultima domanda: a chi ti ispiri per il tuo futuro?

Sinceramente, a me.

Riprendo la parola…

Che dire… be’, senza dubbio dalle risposte secche di Angelica si evince che è una ragazza molto decisa. Ciò che mi auguro è che si impegni nel custodire e salvaguardare la tradizione culinaria italiana. Una conoscenza da divulgare che permette ai cuochi, col tempo e l’esperienza, di dare forma alla propria identità.

 

Trattoria La Chiocciola  www.locandalachiocciola.it
Via Runco, 94/F Portomaggiore (FE)

Fotografia in testata di Nicola Boi – Nikoboi photographer




La ‘Barbera del Sannio’ che non ti aspetti!

Sembra quasi strano parlare del Sannio riferendosi alla Barbera. Un territorio riconosciuto ‘Città Europea del Vino 2019’ da Recevin, la Rete Comunitaria delle ottocento Città del Vino. Un conferimento ricevuto grazie al successo della sua Falanghina che inorgoglisce, e che per questa terra nel cuore dell’Appennino sannita, rappresenta una grande opportunità.

Premesso ciò, visto che di Falanghina se ne parla già abbastanza, mi concentrerò su un vino che ho assaggiato durante il mio percorso enoturistico a Benevento: la Barbera del Sannio! Si, ho messo il punto esclamativo. Abituata all’impetuosa Barbera piemontese, non mi aspettavo di assaggiare un vino dai tratti così diversi: una Barbera del Sannio 2016 in purezza passata solo in acciaio. Al naso profumi di rosa e ciliegia, in bocca carattere, freschezza e morbidezza. Davvero buona!

Un vitigno dal grappolo a forma conico piramidale che ho conosciuto a Castelvenere, nella valle del Basso Calore, in provincia di Benevento. Un territorio ricco di biodiversità in cui un giovane vignaiolo, Giacomo Simone, ha scelto di investire il suo futuro nell’attività vitivinicola. Seguendo la tradizione delle antiche cantine ipogee di Castelvenere, ha fatto costruire la sua cantina in un costone tufaceo alto circa nove metri, con uno sviluppo di tre piani teso a favorire la movimentazione per caduta del mosto. Una realtà ecosostenibile che si avvale di un sistema di raccolta di acqua piovana per la riduzione dei consumi idrici ed energetici, e di pannelli fotovoltaici su ‘alberi sculture’.

Ma ora a lui la parola…

  • Giacomo, l’attività di viticoltore non è stata la tua prima scelta di vita professionale. Sei un ingegnere. Che cosa ti ha portato a questo cambio di rotta?

Ho avviato il percorso di studi in ingegneria informatica a Siena, ma dopo due anni ho deciso di abbandonare gli studi. Poi, ho vissuto per quattro mesi a Londra, dove ho lavorato in un laboratorio di informatica. Forse è proprio lì che ho capito che non avrei mai potuto trovare la mia “casa” altrove.  “Amo il mio maledetto paese”, ed è qui che ho deciso di stare, per valorizzare ciò che c’è di buono. La passione per la natura e per la vigna mi ha aiutato… il resto è venuto da solo.

Non dobbiamo abbandonare i nostri territori… luoghi in cui hanno vissuto e “faticato” le nostre famiglie. Ciò che dobbiamo fare è conservare le memorie e il sapere contadino. Questo è il motivo che mi ha convinto a costruire il mio futuro qui, e per questo ringrazio la mia mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto.

  • Ritengo che lo sviluppo sostenibile del territorio e la salvaguardia del patrimonio viticolo siano obiettivi primari per il futuro della viticoltura. Premesso ciò, cosa pensi dell’accelerazione nella coltivazione della Falanghina? Credi si possa rischiare un fenomeno analogo alla zona del Prosecco?

Cinzia, posso dirti solo che qualche anno fa, i vignaioli vicino a me, mi raccontavano che in queste terre per tutto il mese di settembre si sentiva il profumo dell’uva bianca Malvasia. Da quando è “arrivata la Falanghina” non si sente più nulla. Dopo aver ascoltato tanti anziani del luogo, ho dedotto che la Falanghina è stata introdotta di recente a livello così intensivo puramente per soddisfare la forte richiesta sul mercato. Purtroppo, si stanno via via abbandonando tutte quelle varietà di uve che ogni contadino in passato aveva impiantato nei vigneti, e che una volta vinificate, davano vini corposi, saporiti, profumati, unici… Un vero peccato.

Ora tocca a noi vignaioli saper cogliere – senza farci sopraffare – l’occasione che questo “successo chiamato Falanghina” ci ha offerto. Dobbiamo mostrare al mondo cosa c’è nel Sannio oltre alla Falanghina. Il nostro territorio è ricco di biodiversità, conoscenze, potenzialità. Ci sono tante storie di vini e di uve, da scoprire e non da mettere da parte.

  • Nella tua cantina ho avuto il piacere di assaggiare l’Ancestrale, un metodo classico ottenuto da una base di Aglianico Rosato con raccolta anticipata e blocco della fermentazione. Una tua sperimentazione?

L’Ancestrale è stato un caso. Dopo averne letto, l’idea di lavorare in cantina “senza aggiungere nulla di estraneo al vino” mi prese molto. A breve, in collaborazione con il mio enologo, sperimenterò altre varietà a bacca rossa tipo la Camaiola.

In passato veniva utilizzato esclusivamente il vino bianco. Con lo zucchero in alcune cantine private si azzardava la rifermentazione in bottiglia, purtroppo senza strumenti e conoscenze valide… con risultati non sempre positivi. Fare spumante comunque non era una novità, come giustamente evidenzia il libro di Pasquale Carlo, nel capitolo sulla spumantizzazione con le uve Trebbiano a Cerreto Sannita.

  • Il Sannio, Città Europea del vino 2019. Una grande opportunità per la valorizzazione della viticoltura e per la promozione del patrimonio storico e artistico di Benevento. A questo proposito, da persona che vive il territorio, quali sono a tuo parere le priorità che gli enti predisposti dovrebbero sviluppare per favorire l’enoturismo nel Sannio?

L’accoglienza! Nel territorio del Sannio ci sono tanti piccoli borghi potenzialmente turistici ma non collegati tra loro… senza rete. La scommessa più grande è riuscire a creare la giusta sinergia tra questi paesi, evitando la fuga dei giovani all’estero, dando loro le giuste opportunità, affinché si possano creare un lavoro con le risorse del posto. La cooperazione è la chiave. Non abbiamo bisogno di costruire alberghi, né casinò, né parchi… abbiamo già tutto. Dobbiamo solo migliorare i servizi di accoglienza. Non vogliamo puntare sul turismo di massa, ma sul turismo interessato e attento. I cittadini devono tornare a innamorarsi del Sannio… rispettandolo come merita!

Riprendo la parola…

Non posso che condividere le riflessioni fatte da Giacomo, e che io stessa, nei giorni passati nel Sannio, ho più volte sottolineato. Ciò che mi auguro, è che questa opportunità per il 2019 venga colta, con la messa in atto di strategie a sostegno della visibilità e della valorizzazione del territorio. Cosa resta da dire…  forse solo che i giovani viticoltori italiani stanno crescendo, e molto bene per fortuna!

Az. Agr. Simone Giacomo – Via Curtole Castelvenere (BN)  www.simonegiacomo.it

 

 




Edoardo Ferrera, un cuoco aspirante oste!

Edoardo Ferrera, un cuoco aspirante oste che ho conosciuto a Imperia, in una giornata di prima estate in cui splendeva il sole. Dopo giorni vissuti nella quiete di Apricale – borgo medievale tra i più belli d’Italia situato nell’entroterra di Bordighera – avevo bisogno del mare, dei suoi colori e della sua gente. 

Un incontro con un cuoco viaggiatore che ha appreso l’arte della cucina dalla nonna Tecla, nella vecchia osteria di famiglia situata in un angiporto, uno dei tanti vicoli nel centro storico di Genova. Col passar del tempo, le frequentazioni della gente del porto, lo hanno portato ad imbarcarsi come marinaio della Marina Militare italiana sulla nave scuola Amerigo Vespucci.

Era il 1984. La passione per la cucina non tardò a farsi sentire.

Dopo le tante esperienze – non solo culinarie – fatte in giro per il mondo (Edoardo è anche un batterista di rock blues), è tornato nella sua Liguria, dove gestisce il ristorante ‘Il Refettorio Cenacolo del tempo sospeso”. Un luogo in cui celebrare il gusto dimenticandosi del tempo. 

Edoardo, un uomo gentile e ospitale, ma schietto e di carattere.  A lui la parola.

  • Cuoco e aspirante oste, partiamo da qui. Raccontami di questo tuo percorso. A che punto sei arrivato?

Arrivato? Cara Cinzia, se mai partito! È un percorso metamorfico credo naturale, per chi come me di Mestiere di Bottega vive. Un cuoco ha una visione perimetrale al governo del fuoco e dello spazio dove ripone il suo fare, l’oste invece deve avere una visione periferica e più completa. Questo mi affascina e mi fa vivere il mio Spazio con visione e modus operandi diverso. Mi dà l’obbligo che una Bottega impone… Presenza, costanza, gestionalità integrata all’economia domestica, fino ad amministrarne accoglienza e promozione globale del proprio fare.

  • Insisto spesso affinché il racconto del piatto sia fatto a dovere. Una presentazione che va oltre al semplice nome. Conoscere l’origine delle materie prime, il legame con i territori e le alleanze che si creano con i produttori, fa la vera differenza. Un modo per fare cultura del cibo. È per questo motivo che ora ti chiederò di raccontarmi un piatto che ho apprezzato particolarmente: le Trenette al Pesto con Fagiolini e Patate. Una preparazione conosciuta dai più, che impone ricerca e ingredienti di qualità. 

Le Trenette al Pesto con Fagiolini e Patate per noi genovesi è un fattore cromosomico, un rigoroso rito da osservare almeno una volta alla settimana. Il Pesto è in qualche modo  GENOVA, rappresentandone in maniera iconografica semplice la sua Superba magnificenza. Genova, “superba per gli uomini e per le mura”, come la definì il Petrarca, è lo splendido capoluogo dell’assolata Liguria. Sai Cinzia, si potrebbe camminare all’infinito nel suo centro storico tra gli incantevoli “caruggi”, gli stretti vicoli fiancheggiati da case altissime, senza mai stancarsi. Ogni muro, ogni casa, viuzza e palazzo, ogni villa, parco e fortificazione, conserva intatto il fascino dell’antica Repubblica marinara genovese. “Città d’arme e di commerci”, le sue bellezze artistiche sono conservate all’interno dei palazzi nobiliari detti rolli, e nei molti musei cittadini. Genova appunto, capitale del “pesto” e del buon cibo, come potrei tralasciarne traccia nei miei menù? Da sempre e per sempre ci saranno!

Edoardo Ferrera: “Trenetta, pesto, fagiolini e patate. Concepita a Lucera per essere accompagnata con il vero Pesto alla Genovese. Prodotta da due varietà di grano con caratteristiche diverse e complementari, il Saragolla e l’Hathor, sperimentate a lungo in azienda e coltivate in agricoltura biologica. Il Saragolla ha proteine e glutine e dà alla pasta corpo e sapore; l’Hathor è un incrocio tra Korasan e Senatore Cappelli e ha un profumo molto intenso.”

  • Giornalismo enogastronomico. A volte garbato e a volte impertinente. A volte persino saccente. Qual è la tua esperienza a proposito?

Esistono “regole del gioco”, le devi conoscere, tutto qui.  A volte incontri penne garbate dall’animo gentile, a volte penne che stanno per finire l’inchiostro, e che pertanto cercano in qualche modo di lasciare il loro segno… Ma anche questo fa parte del gioco delle parti, nessuno ti obbliga a farne parte.

  • Filippo, tuo figlio, e la sua passione per le ostriche. Un giovane attivamente coinvolto nella brigata di cucina del tuo locale. Mi spieghi com’è nato in lui l’interesse per questo mollusco? E, vista la sua conoscenza, quali i consigli per l’assaggio in sicurezza?

Nasce dalla dote innata che Filippo ha… l’essere curioso. Dote per altro fondamentale del nostro mestiere, che ti permette di andare sempre e comunque alla ricerca anche dell’ovvio. Grazie all’amico romano Corrado Tenace – che oltre ad essere un grande selezionatore è un profondo conoscitore dell’Ostricoltura – Filippo, letteralmente preso per mano, ha potuto conoscere sul campo questa pratica. Un mondo fatto di genti di Terra, Mare, Fiumi e Lagune. Oggi è lui stesso che ha firmato la nostra carta delle ostriche ricercando con grande sensibilità cognitiva tutte le nostre proposte, creando un percorso davvero intenso e prezioso.

L’assaggio in sicurezza…?! Credo che si debba sempre saper valutare il professionista che si ha di fronte. L’ostrica, come tutto il pesce crudo, a livello di sicurezza alimentare è cosa delicata, pertanto, già il locale stesso (pulizia e ordine) danno segnali importanti su come possano essere mantenute.

Edoardo Ferrera: “Una personale interpretazione di uno dei primi piatti di quella Italia Verace che amo: la Puttanesca alla romana. Volendo giocare con le materie prime abbiamo anteposto alle uova e farina, una verace seppia lavorata e trafilata come una tagliatella. Il rimando organolettico viene poi dato da un’infusione di pomodoro cotto sottovuoto con colatura di alici e capperi per trentasei ore, è servito alla brocca al commensale. L’effetto a mio giudizio è coinvolgente ed al contempo sensuale.”

  • Negli anni scorsi ho avuto modo di conoscere Wainer Molteni e di scriverne a proposito del suo libro: “Io sono nessuno – Storia di un clochard alla riscossa”. Un racconto a cui ti sei ispirato e che ti ha permesso di realizzare un menù: “A Pane e Acqua”. Un’idea nata con lo scopo di aiutare il Centro Ascolto Caritas di Imperia, e i senzatetto che sostiene. Me ne vuoi parlare?

Wainer è una persona speciale, la sua storia mi ha colpito parecchio. Il suo libro – “Io sono nessuno” – me ne ha ribadito il suo essere persona vera, genuina e profonda.

Così nasce il progetto “A pane e Acqua”, una degustazione scritta da ciò che semplicemente ho visto per strada; ciò che gli invisibili raccolgono e pescano dal nostro scarto. Come ben sai, però, queste operazioni di chiarity viaggiano sul sottile confine tra il filantropismo e il divenire portatori sani d’italico paraculismo.  È per questo motivo che proponiamo il menu solo a quei tavoli che in qualche modo sono anch’essi “invisibili”. Quelli con cui nasce un contatto al tavolo, una garbata e temporale confidenza. Tavoli che scelgo solo io. Pensi che forse è un salire in cattedra troppo arrogante? Può essere, ma sono o non sono lo Chef!

  • Dopo aver letto il tuo pellegrinare per il mondo (a dire la verità un po’ ti invidio), mi chiedo se il tuo sbarco a Imperia sarà duraturo…

Sono un Marinaio nell’animo, è vero. Per natura la mia prua non chiede mai sosta alla banchina guardando terra, ma solo sempre verso il mare aperto. Tanto per dire che il mio motto è: “La meta è la Partenza”. In questo caso però è diverso. C’è un progetto chiamato Filippo Ferrera, c’è una nuova rotta da tracciare. Non chiedermi però di darti tempi. In questo momento qui al Cenacolo di Oneglia il Tempo l’ho Sospeso! In futuro chissà… finché c’è da fare io non mi annoio mai.

Cinzia, voglio salutarti con un vecchio proverbio milanese che il buon Gualtiero citava spesso: “Quand l’ost l’è su la porta, el gh’ha de fa nient in cà.” 

Edoardo Ferrera: “Un piatto che è nato pensando a Montale e la sua Raccolta Ossi di Seppia. Ardesia, Sassi di Battigia fanno da anfiteatro e contenitore per il nostro Polpo, a cui vengono estratti i succhi naturali, e poi ristrettì in gelatina albuminica naturale ricavata da lische di Nasello. Il piatto è molto semplice, perché accompagnato con patate e fagiolini all’olio extra vergine d’oliva Taggiasca 190 del Frantoio Sant’Agata e dei fiocchi di Sale affumicato.”

“Il Refettorio Cenacolo del Tempo Sospeso”  Via Des Geneys, 34 – Imperia  www.ilrefettorio.it

 




Sannio Falanghina, città europea del Vino 2019. Orgoglio italiano.

Siamo nel Sannio, nel cuore dell’Appennino sannita. Un territorio che negli ultimi anni – grazie alla sua Falanghina – ha avuto una notevole visibilità. Un successo che gli ha conferito il riconoscimento di Città Europea del Vino 2019 da parte di Recevin, Rete Comunitaria delle ottocento Città del Vino. Un trend che nel 2017 ha portato gli ettari dedicati alla Falanghina a superare sia pur di poco quelli dedicati all’Aglianico. Una crescita che mi auspico venga tenuta sotto controllo, per garantire e salvaguardare la ricchezza ampelografica campana. Aglianico, Sommarello, Piedirosso, Sciascinoso, Agostinella, Falanghina, Cerreto, Coda di volpe, Grieco, Malvasia, Fiano, Passolara di San Bartolomeo, Olivella, Carminiello, Palombina, Moscato di Baselice… solo una parte del patrimonio della biodiversità sannita.

Riflessioni che prendono spunto da un altro successo chiamato ‘Prosecco’, che ahimè, sta modificando l’equilibrio delle varietà dei vitigni coltivati nei suoi territori.

Qualche dato. Il Sannio Beneventano è la provincia con il comparto vitivinicolo più redditizio della Campania. Una regione che dal 1912 al 1932 fu la prima produttrice di vino in Italia. Qui la fillossera, grazie ai terreni vulcanici, arrivò in ritardo rispetto ad altre zone. Un primato che perse dopo la seconda guerra mondiale per il parziale abbandono delle pratiche agricole. Una situazione che col passare degli anni ha avuto una graduale controtendenza, spesso, dopo uno o due salti generazionali. Non sono pochi i casi di giovani agricoltori che si dedicano alla viticoltura seguendo le orme dei nonni. La consapevolezza raggiunta sul legame sempre più stretto tra vino e promozione del territorio, e la crescita dell’appeal del vino italiano sui mercati internazionali, ha portato giovani e meno giovani a cambi di rotta professionale, a volte, anche tra i più inaspettati.

Una terra – il Sannio Beneventano – da sempre vocata ad una viticoltura caratterizzata per lo più da suoli di tipo argillosi calcarei, con una componente vulcanica. Diecimila ettari vitati, settemilanovecento vignaioli, circa cento aziende imbottigliatrici per oltre un milione di ettolitri di vino prodotto, tre denominazioni di origine e un’indicazione geografica per più di sessanta tipologie di vini. La vite – sottolinea Nicola Matarazzo, Direttore del Consorzio Tutela Vini Sannio DOP – è il segno che consente di leggere l’identità culturale e sociale dell’intera comunità sannita.

Vigneto Sannio. Nei miei giorni passati nel Sannio, ho visitato alcuni vigneti di grande fascino storico e paesaggistico. Emozionante la loro vista. Mi riferisco a viti plurisecolari di Aglianico allevate a raggiera libera in località Pantanella, nel comune di Monte Taburno. La capacità di conservare nei secoli un patrimonio viticolo come questo, merita una riflessione. “A sostegno di chi si impegna nella conservazione dei paesaggi viticoli – commenta Lorenzo Nifo Sarrapochiello, agronomo e Presidente della Commissione tutela del Sannio Consorzio Tutela Vini – tengo a sottolineare l’importanza della gestione ottimale del vigneto, in particolar modo della corretta potatura della vite. Un fattore essenziale per la sua longevità.”

Tutto il mio apprezzamento per chi ne ha davvero le capacità… un sapere antico che si dovrebbe recuperare.

Benevento, una città a misura d’uomo. Una costatazione che ho fatto dopo aver osservato la sua gente passeggiare senza fretta, nella quotidianità, lungo i viali del suo centro storico fino all’Arco Traiano (117 d.C.), uno tra i più antichi archi onorari della romanità. Una città ricca di miti e leggende un tempo chiamata Maleventum. Fu l’esito positivo di una delle guerre sannitiche delle Legioni Romane sull’esercito di Pirro, a mutarne il nome in Beneventum.

Chiamata anche città delle streghe, per i riti pagani che in un lontano passato venivano praticati dai longobardi intorno all’antico Noce di Benevento. Per certo, a proposito di streghe, molto meglio ricordarla per il noto liquore a base di erbe prodotto fin dal 1860, e per il famoso premio letterario istituito nel 1947 dai proprietari dell’azienda liquoristica beneventana, da cui il Premio Strega prende il nome.

Alle falde del Monte Taburno Sant’Agata de’ Goti, uno dei più suggestivi borghi storici di Benevento. Sorge su un unico roccione tufaceo la cui vista spettacolare rapisce lo sguardo.

Passeggiando nel suo centro storico, tra le strette stradine lastricate, si possono ammirare edifici medioevali, barocchi e rinascimentali, a testimonianza delle sue antichissime origini. Tra questi, il Palazzo Mustilli, con le sue cantine scavate nel tufo a quindici metri di profondità. In questo luogo ricco di storia e di atmosfera, oltre alla Falanghina, viene affinato in legno l’Aglianico, uno dei miei vini del cuore. 

Il Sannio Beneventano – la provincia più agricola della Campania – che nel 2019, se saprà cogliere l’occasione, sarà al centro del settore vitivinicolo dell’Unione europea.

“Il Sannio, una terra appartata, ma ricca di autentiche sorprese per i viaggiatori veri.” Luciano Pignataro

 

Sannio Consorzio Tutela Vini www.sanniodop.it




Pane al pane, vino al vino… Assaggi in Tenuta Quvestra

Pane al pane, vino al vino… tanto per dire che non ho alcun dubbio sul pane e sul vino che ho assaggiato alla Tenuta Quvestra. Un’azienda agricola di circa dodici ettari situata a Santa Maria della Versa, in provincia di Pavia. La mano di Miriam e Simone – giovani gestori e sommelier – nella preparazione del pane, e la saggia guida enologica del caro amico Mario Maffi – memoria storica ed enologica dell’Oltrepò Pavese – mi hanno portato a pensare ancora una volta a quanto sia bello tornare in questa terra.

La verità è che lontano dalle vigne e dagli amici non so stare…

Già… soprattutto quando si tratta di rivivere nella quiete paesaggi collinari ricoperti da vigneti. Ritrovarsi con gli amici davanti a un bicchiere di buon vino, poi, rende questi momenti unici e speciali. È stato così anche questa volta, durante la visita a questa realtà vitivinicola situata nel cuore della Valle Versa, dove la vite è coltivata nel rispetto dell’ambiente circostante. Sei i vitigni: Pinot nero, Croatina, Chardonnay, Riesling Renano, Barbera e Merlot.

E come sempre, dopo aver passeggiato in vigna, si va in cantina.

Già… perché l’uva nasce in vigna e il vino in cantina. È qui, in questo luogo ricco di storia e di vita, che si completa sul serio la conoscenza del vino. Il vitigno, il clima e il territorio, sono elementi che il viticoltore con sapienza e maestria consente di far esprimere al meglio, soprattutto in questi anni di evidenti cambiamenti climatici. Un percorso che ancora una volta ho vissuto accompagnata da chi il vino lo produce e lo personalizza.

Come scriveva il grande Mario Soldati…

“Perché, fare sul serio la conoscenza di un vino non significa affatto, come forse si crede, assaggiarne due o tre sorsi, o anche un bicchierotto. Significa innanzi tutto, sulla località precisa e ben delimitata dove si pigia il vino che vogliamo conoscere, procurarsi alcune fondamentali notizie geologiche, geografiche, storiche, socio-economiche. Significa, poi, andare sul posto, e riuscire a farsi condurre esattamente in mezzo a quei vigneti da cui si ricava quel vino. Passeggiarvi, allora, in lungo e in largo. E studiare, intanto, la fisionomia del paesaggio intorno, e la direzione e la qualità del vento; spiare sulla collina l’ora e il progredire dell’ombra; capire la forma delle nuvole e l’architettura delle case coloniche; ancor di più, significa conversare con la persona che presiede alla vinificazione, proprietario, enologo, fattore… Significa passeggiare a lungo anche nelle cantine, sottoterra, o nei capannoni, fra le vasche di cemento: scrutare le connessure delle botti, fiutare l’odore del vino che ancora fermenta, individuare la presenza, talvolta dissimulata, di apparecchi refrigeranti o, peggio, pastorizzanti. Infine assaggiando, in paziente, lenta alternativa, o con frequenti intervalli, paragonare l’uno all’altro i sapori delle annate.Da ‘Vino al vino’

E così si assaggia, con poesia e rispetto, come abitualmente io vivo il vino.

Dopo alcune degustazioni – ma non troppe – mi sono soffermata a discutere con Mario su una mia perplessità inerente alla valutazione dei vini fatte dai degustatori delle guide enologiche. Mi spiego… Mi sono sempre chiesta come sia possibile che le commissioni tecniche d’assaggio possano degustare, e conseguentemente valutare, centinaia di vini – e a volte oltre – senza rischiare una stanchezza sensoriale e una conseguente assuefazione. Ebbene, Mario grazie alla sua lunga esperienza, non ha potuto che confermare questo mio dubbio, garantendomi che dopo l’assaggio di circa una ventina di vini, si può ‘solo’ escludere la presenza di difetti.

Be’, che dire… forse solo che personalmente non amo andare oltre una decina di assaggi. Per certo, durante questa discussione, mi sono dedicata in particolare a un buon Merlot dai profumi intensi e dal color rosso rubino.

Perché il vino (per me) è rosso, e il rosso fatto bene è salute!

A proposito… tornando al pane, oltre che al vino, non vi ho detto che durante le varie degustazioni Simone mi ha fatto assaggiare il ‘suo pane’ a base di croste di parmigiano. Si, avete capito bene! Croste ammorbidite in un liquido di ammollo che viene impiegato per l’impasto del pane. Un’idea nata per recuperare la grande quantità di residuo di forme di formaggio che regolarmente, in occasione degli eventi, avanzavano. Davvero bravo!

Tenuta Quvestra
Wine & Hospitality – www.quvestra.it
Località Case Nuove, 9 – Santa Maria della Versa (Pavia)




Brianza, bella ma non sempre facile. Due chiacchiere con gli amici della ratta.

Bella ma non sempre facile. Si, parlo della Brianza, terra verde alle porte di Milano conosciuta per la bellezza dei suoi territori e per la sua gente operosa. Un’area produttiva che nell’immediato evoca imprenditori di successo. Terra di tradizioni ma anche di chiusure. Io stessa avvicinandomi a realtà produttive, ho trovato diffidenze raramente incontrate in altre parti d’Italia. Eppure, come dice Maurizio Alberti, un pubblicitario di Milano che si è trasferito in Brianza, volendo c’è posto per tutti.

Insieme alla moglie e cuoca Cinzia Degani, ha dato una nuova svolta alla sua vita trasformando la casa in cui vive in un’azienda agricola, un agriturismo e una libera associazione di idee. Una casa con “cucina di casa”, con un menù fisso che varia in base ai prodotti di stagione propri e/o di aziende agricole locali, associate al Consorzio Agricolo e Agrituristico Lecchese Terrealte.

Amici della Ratta

“Amici della Ratta” a La Valletta Brianza in provincia di Lecco, la casa in cui vivono e lavorano Cinzia e Maurizio. Situata nel Parco di Montevecchia e nella Valle del Curone, ha sede nell’antica strada della ‘rata’, voce dialettale che significa colle erto e boscoso.

Un ottimo punto di partenza, o di arrivo, per percorsi di conoscenza nel cuore verde della Brianza a poca distanza da Milano. Un’associazione culturale senza fine di lucro che promuove gli impulsi creativi e artistici delle persone. Sede di mostre, incontri a tema e di sviluppo d’idee all’aria aperta, permette di vivere un’esperienza formativa e un momento di benessere tra suggestioni naturali, stando insieme, sviluppando energia ed emozioni.  Un’esperienza che ho vissuto personalmente passeggiando a piedi scalzi sull’erba, come amo fare quando sono a contatto stretto con la natura, chiacchierando con Maurizio e assaggiando le preparazioni casalinghe di Cinzia.

Amici della Ratta

  • Come ho scritto poc’anzi… Brianza bella ma diffidente. Tu sei di Milano e tua moglie di Legnano. Eppure, come molti mi hanno detto, iniziare una nuova vita in Brianza e guadagnarsi la fiducia della sua gente non è sempre facile. Qual è la tua esperienza?

Devo dire che dopo quindici anni le persone cominciano ad avere fiducia perché possono vedere con i loro occhi che la nostra non è stata una scelta solo di business, ma soprattutto una scelta di vita. Abbiamo dimostrato di amare questo territorio, rispettandolo.

I soci, aziende agricole della provincia di Lecco, sono una trentina di cui circa diciotto sono anche agriturismi (ristorazione e pernottamento o, come noi, solo ristorazione). Le iniziative del Consorzio sono varie: organizzazione dei mercati agricoli di Osnago e di Ballabio (fino all’anno scorso anche di Valmadrera), serate di degustazione di vino, formaggi e salumi presso gli agriturismi e, come la settimana scorsa, iniziative di solidarietà con i produttori agricoli di Norcia che sono stati ospitati nei nostri mercati e hanno organizzato una cena da noi, il cui ricavato è stato devoluto a loro.

  • Come mi hai raccontato la sera che ci siamo incontrati, nel 2000 è nata l’idea di vivere in Brianza, che poi, a distanza di qualche anno, si è concretizzata con la realizzazione di un agriturismo. Quali sono le maggiori difficoltà  che avete incontrato o che incontrate tutt’ora?

Le maggiori difficoltà sono state ottenere i permessi dalla Provincia, le regole cambiavano di anno in anno, e i rapporti con il Parco Regionale di Montevecchia che, soprattutto all’inizio, vedeva la nostra attività come invasiva di un’area naturale e non propositiva per la formazione di un turismo sempre più consapevole. Ora le difficoltà  sono rappresentate soprattutto dalla crisi economica, ma credo sia così un po’ in tutti i settori.

  • Da pubblicitario ad agricoltore. Segui i lavori in vigna e conferisci l’uva per la produzione del tuo vino, il Ratin Russ. Com’è avvenuta questa trasformazione e chi ti ha insegnato a lavorare la terra?

La trasformazione non è ancora avvenuta del tutto. Soprattutto siamo diventati imprenditori agricoli e,  prima della terra, abbiamo imparato le regole imposte dalla burocrazia e i giusti modi per rapportarci con le istituzioni. Poi collaboriamo con chi ne sa più di noi: l’azienda La Costa, che fa parte del nostro Consorzio, oltre a darci una mano nel vigneto, ci vinifica l’uva (loro, come ben sai, hanno la cantina e, soprattutto, un bravo enologo). Per l’orto è stato relativamente più semplice, anche se le nostre balze sono argillose e ‘sassaiole’ e dure da lavorare, con il tempo abbiamo imparato quali sono le colture che meglio si adattano sia al clima sia al terreno.

  • Cinzia, tua moglie, cura e segue la cucina. Anche lei proviene da un’altra esperienza lavorativa. Una seconda vita nata dalla passione o da un’esigenza?

E’ la passione per la cucina di Cinzia che ci ha spinto ad affrontare questa scelta. Cinzia ha vissuto per molto tempo in Africa (dal Sud Africa alla Tanzania) per molti anni e si è trovata a dover cucinare in diverse situazioni dove non si reperiva sempre la materia prima o non era di qualità, ma non si è mai persa d’animo e ha sempre risolto tutte le situazioni.  E’ venuta così anche in contatto con culture e tradizioni diverse che hanno molto influenzato il suo modo di cucinare. Così nel nostro agriturismo proponiamo piatti della tradizione ma sempre con un pizzico di creatività in più.

  • Non solo agriturismo ma anche una libera associazione di idee. Come concretizzate questo progetto?

Lasciamo spazio ad iniziative culturali come la presentazione di libri, letture di poesie, Organizziamo mostre di pittura, fotografia e scultura oltre a, naturalmente, degustazioni di prodotti locali. Le proposte arrivano dai nostri clienti e noi li assecondiamo volentieri in tutta libertà. Tanto da dare così oltre al cibo per il corpo, una buona dose di cibo per la mente, che di questi tempi fa molto bene.

Riprendo la parola per concludere con un consiglio rivolto a chi ha la fortuna di vivere vicino a questa terra verde, la Brianza: impariamo a rivolgere uno sguardo più attento a ciò che ci circonda, potremmo scoprire bellissime realtà che spesso cerchiamo lontano da noi.

Buona estate, anche in Lombardia!

Parco di Montevecchia

Amici della Ratta – www. amicidellaratta.it

Via Curone, 7 – La Valletta Brianza LC – Tel 039 5312150




Il mio incontro con Simonetta Varnelli, custode di tradizione nella più antica distilleria delle Marche.

Distilleria Varnelli, antica casa liquoristica marchigiana.

Quest’anno la mia estate è iniziata viaggiando tra Abruzzo e Marche. Due regioni colpite nel cuore dal terremoto che stanno lentamente cercando di ripristinare i giusti equilibri. Non è facile far vincere le paure alle persone quando è la natura a decidere. Solo l’amore per il proprio territorio e la vicinanza della gente da coraggio e nuova vitalità per continuare. Per questo, dopo aver passato del tempo in Abruzzo, mi sono fermata nelle Marche. Una presenza, o meglio, un’esigenza che sentivo di dover soddisfare.

“Nelle Marche si vive bene”

E’ questa la risposta che mi è stata data più volte dalla gente del posto. Un’affermazione che condivido e che mi riporta ad una terra a cui sono legata per la bellezza delle coste e dell’entroterra. Sole, mare, verdi colline e immense distese di girasoli. Ma non solo…

I girasoli delle Marche

Nei giorni passati in questa regione, ho voluto dedicare una parte del mio tempo ad un’antica casa liquoristica che apprezzo per l’artigianalità delle sue produzioni. Mi riferisco alla Distilleria Varnelli di Muccia, in provincia di Macerata. Un’azienda storica che, come molte altre della zona, circa un anno fa ha subito alcuni danni conseguenti alle scosse di terremoto. Segni ancora evidenti che richiedono sveltezza burocratica per la messa in sicurezza, ma anche e soprattutto, per chi vive le realtà produttive locali, coraggio, tenacia e valorizzazione del territorio. Sono questi i temi che ho trattato con Simonetta Varnelli. Una donna che mi ha accolto con gentilezza e che ho apprezzato per il carattere e per la semplicità. Insieme alle sorelle gestisce un’azienda familiare tutta al femminile. Una distilleria – la più antica delle Marche – fondata nel 1868 da Girolamo Varnelli a Cupi di Visso (MC), che da ben quattro generazioni si contraddistingue per la continuità fedele di una tradizione.

Durante la nostra chiacchierata, ho riscontrato in Simonetta quella risolutezza che ritengo possa essere utile per la tutela del territorio. Sensazioni che mi hanno indotto ad invitarla a proporsi per un ruolo istituzionale. In realtà, dalla sua risposta, ho compreso che la conduzione dell’azienda e l’attenzione e il piacere delle responsabilità familiari, non hanno mai prevalso sulla possibilità di intraprendere una percorso alternativo.  Oltre che di queste personali scelte di vita, si è discusso anche di quanto – in tema di costruzioni – si potrebbe fare e soprattutto migliorare, per ovviare a situazioni future che potrebbe nuovamente stravolgere un paese dai rischi sismici come il nostro. Questioni da affrontare seriamente per evitare di continuare a “curare” più che a prevenire.

Passeggiando nel cuore operativo della distilleria storica tra profumi di erbe officinali, radici e grandi quantità di miele dei Monti Sibillini,  Simonetta mi ha descritto le tecniche di produzione che nel rispetto della tradizione e della materia prima, seguono con cura e precisione scrupolosa i metodi e le antiche ricette originali di un tempo.

Una visita in una casa liquoristica storica che desideravo fare da tempo, che mi ha permesso di vivere con curiosità ed emozione un’esperienza che darà certamente ai miei assaggi – consapevoli e responsabili – una soddisfazione ed un piacere diverso. Merito della storia, della tradizione e della grande abilità degli artigiani italiani del gusto.

Distilleria Varnelli – www.varnelli.it

Via Girolamo Varnelli, 10 Muccia (MC)

 




Chi aspetta la manna dal cielo è meglio che si metta sotto un frassino!

“Aspetta che piova la manna dal cielo…” Una metafora che ciascuno di noi ha certamente usato – soprattutto di questi tempi – per definire un atteggiamento passivo che non apporta miglioramenti ne’ soluzioni ad un problema. Un’espressione la cui origine risale ad uno scritto della Bibbia, in cui si racconta la caduta miracolosa di cibo dal cielo che ha sfamato gli ebrei durante la marcia nel deserto.

In realtà la manna, presidio Slow Food che pochi conoscono, è una sostanza zuccherina estratta da alcune varietà di frassino. Una secrezione impiegata nell’antichità da greci e romani per le sue proprietà curative, che i medici arabi chiamarono così per le affinità con l’episodio biblico. Ebbene, ho deciso di scriverne dopo aver conosciuto un produttore all’ultima edizione di “Fa la cosa giusta”, la Fiera Nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili.

Valerio Onorato, dell’azienda agricola biologica La Manna di Zabbra di Pollina, in provincia di Palermo, è uno degli agricoltori del Parco delle Madonie che custodisce e valorizza questo prodotto. Un’antica tradizione che si è sviluppata sin dal 1500 in Sicilia, in Campania, in Puglia, in Toscana e in Calabria, zona di maggiore estrazione, che dall’inizio del secolo non è più praticata come un tempo.

Un abbandono conseguente alle produzioni industriali di mannitolo di sintesi, estratto dal melasso di barbabietola, che ha progressivamente fatto diminuire la richiesta di manna sul mercato. Pensate che fino agli anni ’50 la coltura del frassino per la produzione della manna, era portata avanti da alcune migliaia di ‘contadini mannari’.

Ma cos’è la manna?

manna

> La manna è una linfa quasi trasparente che fuoriesce da incisioni sul tronco del frassino fatte da mani esperte.

> Una soluzione dal gusto dolce amaro che a contatto con l’aria si solidifica, fino a formare dei cannoli.

> Il suo sapore varia in base alla tipologia del frassino e del suo ambiente circostante.

> E’ un dolcificante naturale che non altera i valori glicemici, quindi consigliato ai diabetici.

> Utile per le sue proprietà depurative e disintossicanti, è utilizzata in molte preparazioni, tra cui dolci e gelati.

 

Si ringrazia per le immagini  la Pro Loco di Castelbuono – www.prolococastelbuono.it

 




“Chi cucina ha in mano il futuro del Paese.” Giancarlo Morelli.

Un’affermazione forte che condivido, e che ovviamente si rifà ai protagonisti della cucina in senso lato, sia a livello casalingo che professionale. Una responsabilità che va ben oltre la necessità e il piacere. Cucinare implica conoscenza e rispetto della materia prima, selezionata in base al territorio e alla stagionalità. Inoltre, saper conservare il cibo, ci rende consapevoli del valore che esso rappresenta. Così facendo, oltre a guadagnare in salute, si fa bene all’ambiente, alla propria economia e a quella globale.

“Mangiare inteso come un atto culturale ed etico, teso al benessere dell’individuo e al rispetto del pianeta.” Giancarlo Morelli

Il 5 febbraio scorso si è celebrata la Giornata Nazionale contro lo Spreco Alimentare. Secondo i dati del Food Sustainability Index (FSI), il nostro paese si colloca al 9′ posto nella classifica tra i 25 paesi considerati. In positivo per la legge approvata nell’agosto del 2016, in negativo per il cibo che finisce nella spazzatura a livello domestico: una media pro capite di circa 110,5 kg all’anno. Comportamenti che impattano sull’ambiente più di quanto si creda, visto che “il gas metano prodotto dal cibo che finisce in discarica è 21 volte più dannoso della Co2.” (Fonte: Fondazione BCFN)

“Va recuperata la cultura del cibo del nostro territorio. Un compito che spetta anche a chi ci governa.”

Un ulteriore pensiero di Giancarlo Morelli che riconduce al ruolo prioritario che l’educazione alimentare – in ogni sua forma – occupa nella società, in primo luogo a partire dalla scuola, ma non solo. Visto il successo della cucina italiana nel mondo, anche i suoi protagonisti possono molto in questo senso. Se consideriamo che #Italianfood è il primo hashtag per le cucine occidentali con oltre 3.400.000 post su Instagram, i conti sono presto fatti.

Ho citato più volte le affermazioni di uno dei più noti chef italiani con cui recentemente ho avuto il piacere di chiacchierare. Giancarlo Morelli, nativo di Bergamo, dopo gli studi e le esperienze all’estero nell’alta cucina, ha trasformato una tipica corte lombarda nel centro storico di Seregno in un luogo in cui sperimentare le conoscenze acquisite. È nato così nel 1993 il suo primo ristorante: “Il Pomiroeu”. Un nome la cui evidente componente dialettale riporta alla zona poco distante un tempo dedita alla coltivazione delle mele.

Un cuoco in movimento il cui estro porta a sviluppare nuovi progetti nell’ambito della ristorazione. Un uomo dalle molte sfaccettature e dalla personalità estrosa, conosciuto anche per la stravaganza dei suoi occhiali. Gli ultimi hanno catturato la mia attenzione per la forma delle sue lenti: una quadrata e una tonda. Due figure perfette che in uno dei più noti disegni di Leonardo Da Vinci – l’uomo Vitruviano – uniscono arte e scienza. Dettati dalla necessità, ma applicati al meglio, sono diventati più che un’esigenza un segno distintivo e un brand identificativo per il suo nuovo progetto: il Ristorante dell’Hotel Viu Milan.

Ne sentiremo parlare…

Giancarlo Morelli

        

In testata: Risotto Carnaroli del Pavese mantecato alla ricotta di bufala con tartare di gamberi rossi, tartufo nero e colatura di alici. 

Chef Giancarlo Morelli  www.pomiroeu.com

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