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“Fare cioccolato è un affare da enologo”: Marco Colzani, l’enologo-cioccolatiere brianzolo

La mia voglia di conoscere realtà artigianali del territorio in cui vivo e il mio amore per la frutta, mi ha portato a conoscere Marco Colzani, un artigiano con cui ho condiviso criticità e molti spunti su cui riflettere. Un enologo-cioccolatiere brianzolo che ama la frutta. Sì, perché sempre di frutta parliamo, sia che ci riferiamo all’uva per la produzione del vino, che alle fave di cacao per il cioccolato. Il suo, un progetto sognato e realizzato presso un’area dalle caratteristiche architetture industriali di un tempo, che a seguito di un piano di recupero, è diventata  ‘Distretto del Gusto’. Mi riferisco all’ex Formenti, nel centro di Carate Brianza.

Marco Colzani è cresciuto nel laboratorio di pasticceria di famiglia a Cassago Brianza. Diventato agronomo, uscito dalle mura della realtà familiare, ha voluto evolversi autonomamente nel settore enologico. Dopo alcune esperienze sul lago di Como, ha continuato in diverse realtà vitivinicole italiane, e non solo… In Franciacorta con il gruppo Moretti, successivamente a fianco di Roberto Cipresso, enologo di fama internazionale, fino ad arrivare in Sicilia, lavorando a fianco di Arianna Occhipinti, compagna di università, con cui ha fatto la prima vendemmia nella sua cantina a Vittoria. Non si è fatto mancare neanche qualche esperienza in Nuova Zelanda e in Canada, con qualche vendemmia fuori stagione per seguire la produzione di ice wine, i ‘vini di ghiaccio’. Un’esperienza che dovette interrompere per un certo periodo per esigenze familiari, che lo riportarono a dedicarsi totalmente all’attività connessa alla pasticceria insieme al fratello. Col tempo, le produzioni più affini alla sua vena creativa, lo orientarono verso due lavorazioni: i succhi di frutta, che, se non fosse per la fermentazione sono poco distanti dal mosto, e il cioccolato. A questo proposito mi fermo un attimo, per riflettere su un’affermazione di Marco.

“Cinzia, in realtà il cioccolato è più capibile da un enologo che da un pasticcere, visto che uno dei passaggi essenziali eseguito sulle fave di cacao è la fermentazione. Inoltre, nella lavorazione vanno gestite questioni quali acidità e ossigenazione. Insomma, fare cioccolato è un affare da enologo, e la conoscenza enologica che ho acquisito mi è servita a reinterpretare in maniera moderna la produzione di cioccolato.”

Un’affermazione condivisa anche da un amico cuoco-pasticcere con cui, a tal proposito, mi sono confrontata.  In effetti, la maestria di un pasticcere è dal cioccolato in avanti, ovviamente partendo dal presupposto che scelga una buona materia prima. Purtroppo, nel dopoguerra, con l’arrivo dei semi lavorati industriali, le piccole lavorazioni del cioccolato sono state abbandonate per questioni economiche, e conseguentemente, anche la produzione di impianti adatti per le lavorazioni artigianali (fino a 100 kg giornalieri). A tutt’oggi, il costo delle fave di cacao è pari, se non superiore, ad un cioccolato di media qualità industriale già fatto. Una considerazione che ci dovrebbe far riflettere sulla scelta dell’acquisto.

I collaborati di Marco

Seguendo l’attività dei collaboratori di Marco in laboratorio, mi è sorto spontaneo chiedergli che tipo di formazione professionale è richiesta per chi si pone come obiettivo lavorativo fare cioccolato. Sorprendente la risposta, ma soprattutto l’ascolto delle storie di vita di alcuni dei suoi aiutanti. Eccone alcune. Camille, una giovane francese che da Lione, dopo un corso di laurea in economia e commercio e un’esperienza in Francia nella produzione del cioccolato, si è trasferita in Italia per amore. Dopo una visita in azienda da Marco e un confronto lavorativo, ha avuto inizio la sua collaborazione che dura ormai da due anni. Paola, formazione professionale di pasticceria a Casatenovo, divisa tra l’attività in un laboratorio di dolci e l’aiuto presso un asilo. Marco l’ha travata perfetta per i suoi progetti di formazione con i bambini. Rachele, formazione in lettere. L’incontro con Marco è avvenuto dopo il suo rientro dal Perù, a seguito di un anno lavorativo presso un’azienda agricola specializzata nella trasformazione di fave di cacao.

Persone con formazioni diverse che avvicinandosi al cioccolato ne ha hanno fatto una ragione di vita. Meravigliosa passione che rende il lavoro un piacere!

L’importanza della provenienza delle fave di cacao

Nei nostri discorsi relativi alla provenienza delle fave di cacao si è parlato anche di Claudio Corallo. Un italiano di cui esser fieri, che a São Tomé e Príncipe, nel Golfo di Guinea, dopo avere affinato le tecniche per la trasformazione del cacao, partendo da una buona materia prima, forma gli agricoltori e lavora in perfetta armonia con l’ambiente. Il risultato è la produzione di un cioccolato che molti definiscono tra i più buoni al mondo. Ma questa è un’altra storia…

Ebbene, ritornando all’importanza della provenienza delle fave di cacao, Marco acquista esclusivamente da cooperative o da aziende agricole, assicurandosi che sia garantita la tutela dei lavoratori, e che nel contempo non ci siano situazioni di sfruttamento minorile, piaga non del tutto ancora superata. Negli ultimi anni, con il ripristino della filiera corta, la tracciabilità del cacao è totale, e conseguentemente più garantita. In più, la facilità dei contatti diretti con i coltivatori, visto che non è più essenziale l’intermediazione dei trader del cacao, agevola le collaborazioni. Il cacao di fatto è quotato in borsa, e il suo prezzo è fissato a livello internazionale.

A proposito di DOP e IGP, indicazioni sulla provenienza istituite dalla UE

Quando ho chiesto a Marco qualche indicazione sulla provenienza della frutta che trasforma, si è aperta una discussione su un’altra questione a me molto cara. Mi riferisco alle ‘perplessità’ di molti, chiamiamole così, sulle ben note contraddizioni di sigle che più che chiarire confondono il consumatore. Avete presente le sigle che troviamo scritte sulla frutta e non solo… Mi riferisco alle IGP, l’Identificazione Geografica Protetta che pone un vincolo sul territorio in cui avviene la trasformazione, ma non sulle materie prime. In pratica garantisce il luogo di produzione e la ricetta, mentre la materia prima può provenire anche da altre località. A differenza, il prodotto con il marchio DOP, Denominazione di Origine Protetta, deve essere fatto in Italia con materia prima italiana. Capita la differenza… già, una questione spinosa per la tutela delle produzioni italiane, che spesso mette in difficoltà i consumatori nella scelta degli acquisti.

L’importanza di collaborare con gli artigiani del territorio

Mi ha fatto molto piacere ascoltare le tante collaborazioni attive con gli artigiani sul territorio. Ad esempio, solo per citarne alcune, Marco è partner del ‘progetto sidreria’ per la produzione di sidro (rifermentato di succo di mela) con il Birrificio Menaresta, un’altra interessante realtà produttiva di cui vi ho raccontato recentemente. Una collaborazione voluta per la sua convinzione che il mondo della birra sia molto più preciso e attento del mondo enologico, sia dal punto di vista delle ossidazioni che dalle contaminazioni batteriche

Attiva e proficua inoltre la collaborazione che punta alla formazione con le scuole superiori limitrofe. In particolare con ‘In-Presa’, centro di formazione professionale il cui motto – dal fare nasce l’esigenza di imparare – la dice lunga. Uno dei tanti progetti realizzati e più volte citati nei miei scritti, situati sempre presso il ‘Distretto del Gusto’ di Carate Brianza. 

“Con la frutta io faccio vendemmie tutti i giorni!”

Vi assicuro che ascoltare Marco nel descrivere la sua passione per la trasformazione della frutta è stato davvero avvincente. Tante le sue affermazioni che mi hanno colpito e fatto riflettere. Ad esempio quando, riferendosi alle sue esperienze come enologo ha esordito dicendomi: “sai, a differenza di prima io con la frutta faccio vendemmie tutti i giorni!” spiegandomi che i veri stimoli in cantina, durante la sua attività di enologo, li trovava solo in alcuni brevi periodi del dell’anno. Effettivamente, a suo dire, per molti lavorare la frutta per ottenere succhi e confetture potrebbe sembrare molto meno affascinante che trasformare l’uva in vino, ma per lui, è molto più stimolante e divertente. Che dire… forse solo che ad ognuno il suo, purché sano e ben fatto!

Due i suoi attuali laboratori, uno per la produzione di cioccolato e uno per la trasformazione della frutta in succhi e confetture. Trasformazioni che, per il cioccolato, vengono raccontate attraverso un percorso di formazione chiamato ‘Spazio Cacao’, aperto a chiunque voglia saperne di più sulla provenienza e sulla lavorazione del cacao, a partire dalla fava. Un’esperienza che vi assicuro stimola mente e sensi!

Laboratorio di Marco Colzani www.marcocolzani.it

Piazza Risorgimento, 1 (entrata da via Firenze) Carate Brianza (MB)

 




Critica enogastronomica in discussione? Facciamo chiarezza con Elio Ghisalberti.

Oggi vi parlerò di una tavola di incontro e di confronto, in cui oltre a celebrare il gusto, si dialoga su questioni legate al cibo e al vino, e ai suoi protagonisti. Una tavola che spesso condivido con Elio Ghisalberti, amico e giornalista enogastronomico, ormai abituato – o forse rassegnato – all’ascolto delle mie battaglie del momento. Più che battaglie, sono cause che difendo, spinta dalla passione e da vero credo per ciò che di volta in volta sostengo. Nell’ultimo nostro incontro, si è discusso sulle questioni sollevate nella puntata di Report del 27 marzo 2017: “Sotto le stelle”. Un’inchiesta di Bernardo Iovene che, per i non addetti ai lavori, ha come si suol dire… sparato nel mucchio.

L’enogastronomia, un settore che vede l’Italia al centro del mondo grazie alle capacità e al carisma di professionisti e produttori. Direi che qualche merito (e anche di più) vada loro attribuito. Con questo non voglio dire che tutto vada bene, anzi, sul fatto che qualcosa debba essere aggiustata nulla da eccepire. La cosa che mi preme, più che le polemiche, è la chiarezza e la voglia di ascoltare una voce esperta fuori dal coro di tanti, che un po’ di confusione la fanno davvero. Per chi non lo conosce, Elio Ghisalberti ha iniziato il percorso nel mondo del giornalismo enogastronomico nei primi anni ottanta alla scuola di Luigi Veronelli, per poi collaborare con il Gambero Rosso (mensile e guide dei ristoranti e dei vini) e con L’Espresso per la Guida ai Ristoranti d’Italia. E’ ideatore e curatore di GourMarte, la Fiera delle produzioni enogastronomiche di qualità esclusivamente made in Italy interpretate dai migliori cuochi. Attualmente firma per L’Eco di Bergamo la pagina settimanale “Sapori e Piaceri”.

  • Elio, oggi allarghiamo la nostra tavola a chi ha voglia di approfondire le criticità emerse nella puntata di Report di cui abbiamo recentemente parlato. Nel dirti “ti lascio la parola” già mi fischiano le orecchie. Una volta tanto dirai… A parte le battute, partiamo da ciò che ho più a cuore: le produzioni italiane di qualità. La visibilità dei nostri chef può molto in questo senso. Intendo nella scelta di materie prime italiane e nella menzione delle stesse sulle carte dei loro ristoranti. Primo impegno di questi professionisti è quello di essere custodi del made in Italy, grazie alla ricchezza di prodotti, di vitigni e di cultivar di olivo del nostro paese. A quanto pare non è sempre così. Qual è la tua opinione in merito?

Chiariamo prima di tutto un punto, visto che giustamente sottolinei l’importanza dell’italianità in cucina, chiamiamoli cuochi e non chef. Altraelio-ghisalberti cosa, non li definirei custodi ma interpreti, perché questo è il ruolo più attinente che, in questo concordo, rappresenta la figura professionale. Detto questo ritengo che il primo impegno professionale del cuoco è quello di fare una cucina buona e sana, di essere serio, preparato, onesto, pulito. Se questi principi sono applicati nel valorizzare le materie prime e la cultura gastronomica italiana e del territorio in cui si opera tanto meglio, merita un plauso, non possiamo che gioirne. Occhio però a non esagerare con i peana a chi sceglie questa via ed al contrario con la mortificazione di chi segue un’altra filosofia. La tendenza ad esaltare la cucina del territorio porta con sé alcune conseguenze, prima fra tutte quella della mistificazione. Quanti cuochi cavalcano questo tema solo perché fa presa sull’informazione e sul pubblico? Chi negli acquisiti e nella pratica quotidiana di cucina, ha sempre privilegiato i fornitori seri della porta accanto non sente il bisogno di sbandierarlo ai quattro venti, lo fa punto e basta. Se poi certi prodotti arrivano anche da molto lontano qual è il problema? L’importante è la coerenza, sempre. Hai mai fatto caso all’acqua minerale che viene servita al tavolo di un ristorante che so, di Torino, il cui cuoco dichiara di acquistare personalmente i conigli a Carmagnola? Magari arriva dall’Alto Adige o dalle valli bergamasche: è coerente tutto ciò?

  • “Una stella Michelin cambia la vita a un ristorante e allo chef, ma anche le forchette del Gambero Rosso e i cappelli dell’Espresso possono fare la fortuna di un cuoco.” In Italia ci sono 334 ristoranti stellati con un giro d’affari che fa girare la testa. A questo proposito mi riallaccio alla trasmissione che, durante le interviste, ha messo in discussione la credibilità di guide e di critici enogastronomici da anni non più in incognito. Giudizi attendibili o sponsorizzati? Come dico spesso la differenza la fanno le persone. Il tempo insegna a seguire quelle giuste. Lascio a te continuare…

Qui mi spiazzi, hai già centrato la questione. Il mezzo può essere più o meno valido, ma è l’autista che lo rende sicuro. Anche quando gli editori erano più ricchi e magnanimi (cioè pagavano i collaboratori a sufficienza per metterli nelle condizioni di lavorare serenamente) vi era chi approfittava del ruolo per trarne vantaggio personale. È stato per così dire fisiologico che, chiusi i rubinetti, la corte dei personaggi dediti al mercimonio si allargasse. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: la credibilità delle guide (di quelle cartacee intendo) è ridotta ai minimi termini. Ma del resto, non se la passa certo meglio il mondo web che per sua natura è fuori controllo e quindi ancora meno affidabile. La credibilità è nelle serietà e nella correttezza dei singoli, e l’incognito non c’entra proprio nulla, credimi. Chi non ci mette la faccia crea un’illusione, non guadagna rispetto.  

  • Lo chef, una professione che alimenta i sogni dei giovani studenti per poi spegnerli quando lo stagista, entrando nel mondo del lavoro, è spesso costretto ad affrontare doppi turni. C’è poi chi, grazie alla bravura e alla fortuna, riesce a lavorare in un ristorante stellato guadagnando uno stipendio non adeguato ma giustificato dalla visibilità che ne deriva. Una media di quindici ore al giorno che contrasta con le quaranta settimanali previste dal contratto nazionale di lavoro. Una realtà che trova impreparate le giovani nuove leve. Fortunatamente non sempre è così. Da qualche anno insegni presso una scuola professionale alberghiera. Puoi espormi la tua esperienza nell’affrontare queste problematiche con i tuoi studenti?

elio-ghisalberti-2L’obiettivo primario di una scuola professionale è, o meglio dovrebbe essere, quello di preparare gli studenti al lavoro. Dove insegno, a me sembra che i colleghi che si occupano delle materie tecnico-professionali mettano da subito con i ragazzi le cose bene in chiaro riguardo ai sacrifici che comporta il mestiere che hanno scelto di imparare. E’ pur vero tuttavia che in buon numero gli studenti iniziano il percorso totalmente privi di questa consapevolezza, ammaliati più dal fenomeno mediatico dei cuochi star che da una reale passione per la ristorazione. Durante il percorso formativo, grazie anche agli stages che vengono regolarmente organizzati, di pari passo alla crescita della consapevolezza avviene spontaneamente, fisiologicamente, la selezione. In questo senso potersi confrontare con il mondo del lavoro sin da giovanissimi aiuta, e molto, tant’è che chi sceglie le nuove formule scolastiche a diposizione, tipo l’alternanza scuola-lavoro, dimostra non solo di avere più chance di concludere gli studi, ma di sviluppare più in fretta le proprie attitudini. Se poi la domanda contiene implicitamente una critica al trattamento riservato dai ristoratori agli stagisti ed ai giovani cuochi in genere, beh, qui torniamo alla considerazione fatta sopra a proposito della credibilità della figura del critico enogastronomico: questione di persone, non certo del movimento della ristorazione nel suo insieme. Attenzione però a dimenticare un fatto oggettivo: in cucina il lavoro è per sua natura complesso e pesante, e più in generale il mestiere nel mondo della ristorazione ha peculiarità specifiche tali da non consentire una vita sociale per così dire omologata. 

  • Di guide, di riviste e di manifestazioni ne hai seguite e ne segui ancora tante. Cosa pensi si possa fare per migliorare la comunicazione in questo settore, soprattutto dopo l’ondata social che ha travolto, anche se per alcuni stravolto, il modo di rapportarsi con la ristorazione?

Fondamentalmente credo che sarebbe utile una selezione feroce, un ritorno ai valori della conoscenza, della competenza, e perché no anche delle buone maniere e del buon senso. No ho alcuna speranza che ciò avvenga. 

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Ringraziando Elio riprendo la parola.

In conclusione cosa resta da dire… Forse solo che – nonostante io ami il giornalismo d’inchiesta – fare del sensazionalismo senza approfondire a dovere i temi trattati serva solo a creare confusione tra i consumatori.




Il Primitivo di Oreste Tombolini, Contrammiraglio della Marina Militare e “Vitivinicultore” a Carosino (Taranto)

Il mondo del vino, per chi non si occupa prevalentemente di marketing, è fatto di storie, di amici e di sorrisi. Ci si conosce, ci si racconta, e ci si trova ogni qual volta l’occasione, o meglio la manifestazione, lo favorisca. Il passare del tempo agevola così la nascita di amicizie e di quel passaparola che fa conoscere il vino degli amici, rendendo l’assaggio più ricco e meno informale. Parlo di gente allegra, che ama la convivialità e quei rituali antichi che legano il vino all’amicizia.

E’ così che ogni qual volta che posso approfitto dell’occasione per salutare, ed eventualmente consigliare, gli amici di turno che mi accompagnano e che nel vino credono, quale fonte di benessere e di espressione del territorio e dell’esperienza della persona che lo produce. Sono questi gli amici del vino, quelli che rendono speciali gli incontri. Recentemente ne ho potuto salutare alcuni alla terza edizione di “Io bevo così”, la manifestazione enogastronomica svoltasi presso la Villa Sommi Picenardi di Olgiate Molgora a Lecco, dimora storica inserita tra i cento migliori giardini d’Italia.

Villa Sommi Picenardi

Villa Sommi Picenardi

Tra i vari assaggi, molto interessante la degustazione di Primitivo di Oreste Tombolini. L’ho ascoltato durante la sua presentazione e sono intervenuta più volte con delle parentesi, per approfondire temi che mi interessano particolarmente. Si è parlato di solfiti, di quanto siano presenti ovunque, e non solo nel vino come pensano i più. Si è parlato però soprattutto di Primitivo, un vino ‘sensibile’ non valorizzato ancora quanto merita, ovviamente quando fatto bene. Quando poi ho ascoltato la sua scelta nell’adottare la musicoterapia per la produzione del vino, mi è scappato un sorriso, ovviamente con tutto il rispetto. Per certo, la musica non fa male a nessuno.

Stramaturo 2015, vino dolce 100% Primitivo

Stramaturo 2015, vino dolce 100% Primitivo

Ho voluto continuare la nostra chiacchierata ponendogli alcune domande.

  • Durante alcuni viaggi a Taranto ho avuto la netta impressione che il Primitivo non abbia su questo territorio la considerazione che merita. Ovviamente mi riferisco a vini fatti bene. Che cosa ne pensi?

In passato il Primitivo veniva utilizzato, si diceva, come vino da taglio per il suo alto tenore alcolico. La mia opinione è che fosse utilizzato, quando ben fatto, per “migliorare” molti vini provenienti da uve poco mature. Penso che attualmente in Puglia ci sia molta voglia di valorizzare il vino Primitivo che, non solo secondo il mio modesto parere, ha delle potenzialità da “primo della classe”. La condizione però è di non lasciarsi prendere dalla voglia di percorrere delle scorciatoie che consentano di omologarne il gusto per renderlo maggiormente fruibile.

Inoltre, il Primitivo, è un vitigno eclettico e si esprime in vari modi in funzione del metodo di coltivazione, della zona di produzione, e, soprattutto, dell’annata. Ho avuto modo di spiegare e di far degustare vari tipi di Primitivo prodotti da me con lo stesso protocollo in cantina, ma differenti in funzione della quantità di produzione per pianta e annata.

  • Riporto un passaggio del tuo intervento: “Il problema principale del Primitivo deriva dall’alta concentrazione di zucchero.” Lascio a te continuare…

Spiegare bene il problema non è semplice. Proverò a essere breve e chiaro. Per ottenere un buon vino l’uva deve essere matura, sana e provenire da vigne vecchie. L’uva della mia zona di produzione, quella del Primitivo di Manduria, quando è matura ha un’alta concentrazione di zuccheri che producono potenzialmente un’alta concentrazione di alcol. Questo a sua volta rischia di inibire i lieviti durante la fermentazione lasciando così dei residui zuccherini elevati.

Se si vuol produrre un vino secco e non si vogliono utilizzare lieviti selezionati e non autoctoni, bisogna agire correttamente in due momenti diversi. In vigna vendemmiando con il giusto tempismo. Sbagliare di qualche giorno può provocare ricadute negative sul prodotto finale. In cantina si devono utilizzare fermentini dotati di tasche di refrigerazione per il controllo della temperatura. Infine è importante, secondo me, il passaggio in barriques non nuove utilizzate solo per favorirne l’evoluzione attraverso la micro-ossigenazione.

  • Per quarant’anni sei stato ufficiale di marina. Ti sei congedato con il grado di contrammiraglio per poi continuare la tua vita come viticoltore. Chi ti ha dato i primi rudimenti del mestiere e quali sono state le difficoltà principali che hai incontrato?   

Sono vissuto in una famiglia dove mio nonno materno Brandisio (ho dedicato a lui il mio vino di punta), insieme a mia madre, produceva vino da uve provenienti dalle nostre terre. Inoltre, oltre ad essere viticoltore, era anche un commerciante di vini. Devo a loro il mio retaggio culturale e la mia passione per la vitivinicultura. Preferisco quest’ultima dizione che pur avendo lo stesso significato di vitivinicoltura spiega meglio il valore culturale che ha per me questo nuovo mestiere.

Ereditata la cantina di mio nonno è stato naturale per me, una volta lasciato il servizio attivo, riprendere da dove avevo lasciato nel  1969 con l’ingresso nell’Accademia Navale di Livorno. Ho appreso le moderne pratiche di cantina da un caro amico produttore di un eccellente Primitivo. Ho anche studiato per mettere a punto un protocollo basato sull’impiego dei Microrganismi Efficaci di Teruo Higa, che mi consente, tra l’altro, di esaltare le caratteristiche nutraceutiche naturalmente presenti nei vini rossi. Devo qui puntualizzare che il vino contiene alcol e va comunque degustato nelle giuste dosi.

Le difficoltà incontrate soprattutto all’inizio, hanno riguardato l’atteggiamento a volte ostico sia dei contadini sia degli addetti alla trasformazione dell’uva, poco inclini alla sperimentazione di nuove metodologie sia in vigna che in cantina. Nel primo anno di raccolta di uve non trattate nemmeno con zolfo e rame, un contadino confinante mi disse: “Ma come, hai anche vendemmiato?” Con questo voleva dire che era meravigliato del fatto che le piante nonostante non avessi usato prodotti chimici, erano uscite indenni da qualunque tipo di malattie.

  • Parliamo di musicoterapia, o meglio, di risonanza acustica con brani selezionati di Mozart e di Canto Gregoriano. Onde elettromagnetiche conferite nella produzione del tuo vino in particolari momenti. Di chi è stata l’idea e quali i risultati scientificamente provati?      

Ho la fortuna di avere un caro amico scienziato laureato in fisica negli USA, Ph.D in ingegneria elettronica, che nel corso di una sua visita in cantina mi suggerì di applicare in bottaia, durante l’affinamento del vino, quella che forse impropriamente definisco “musicoterapia”. Non è semplice da ottenere perché la bottaia deve entrare in risonanza acustica in modo che ci siano le condizioni perché la musica, quella giusta, possa avere effetti positivi sul vino. Ora sto utilizzando esclusivamente Canto Gregoriano.

I risultati fin qui ottenuti non sono ascrivibili a un protocollo scientifico certificato perché per questo è necessario procedere con metodo, e …avere molti soldi a disposizione.  Appena potrò affrontare economicamente la spesa sarà la prima cosa che farò. Ci sono indicatori positivi ottenuti analizzando chimicamente e organoletticamente i miei vini sottoposti a “musicoterapia” e non. In questo mi supporta un’altra mia amica laureata in chimica, che studia il potere anti-ossidante dei vini, ricercatrice presso un noto centro di ricerca.

Questo mio secondo mestiere si sta rivelando molto gratificante per me. Scopro continuamente delle novità che, tra l’altro, mi forniscono gli incentivi per proseguire con il mio protocollo. L’ultima scoperta riguarda la bassissima concentrazione di alcune tossine, le istamine, responsabili secondo uno studio americano, delle emicranie e dei mal di testa provocati dal vino. Non esiste in Italia una legge che ponga un limite alla loro concentrazione. La Svizzera raccomanda un livello massimo di 10 mg/l, la Germania 2 mg/l, Belgio e Francia 5 mg/l e 8 mg/l rispettivamente. Le ultime analisi che riguardano i miei vini ne hanno rivelato una concentrazione da 0,40 a 0,45 mg/l. Ma non sono queste le uniche novità!

Oreste Tombolini Vitivinicultore www.brandisioilprimitivo.it




Storie di persone, il blog di Cinzia Tosini dove il racconto si fa emozione

Intervista di Selene Cassetta pubblicata il 9 Dicembre 2015 su Destinazione Umana

Cinzia Tosini è una di quelle persone che sentono la necessità di stringere le mani, di guardare le persone negli occhi, di ascoltare e di parlare, convinta che alla comunicazione sul web, bisogna unire la conoscenza diretta, esperienza indispensabile e insostituibile: da questa certezza nasce il blog www.storiedipersone.com, in cui trovano spazio racconti di persone che col loro lavoro, la loro passione ed entusiasmo, contribuiscono a rendere l’Italia un posto migliore.

  • Ciao Cinzia, cominciamo raccontando chi sei e di cosa ti occupi oggi.

Chi sono? Una donna che ama l’Italia e che a modo suo, tenta di condividere il bello e il buono del territorio mettendo al centro le persone. Il nostro, è un Paese in cui si sente sempre meno il senso di appartenenza: la causa senza dubbio è il malaffare e le cattive amministrazioni. Nonostante ciò, ognuno a modo suo, può decidere se essere spettatore o protagonista per il bene comune.
Per rispondere alla seconda parte della domanda, dirò metaforicamente che in questo momento è come se vivessi sopra un ponte. Da una parte tesa dalla necessità e dall’altra dalla passione. Due vite lavorative, di cui una legata alla comunicazione. Da poco sono anche entrata a far parte dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia: un traguardo raggiunto principalmente con me stessa, su cui sto riflettendo.

  • Nella tua biografia dici di essere una donna che sta vivendo una seconda vita: in che senso?

E’ così. Da oltre cinque anni sto vivendo una seconda vita. Gli eventi che inconsapevolmente ci travolgono spesso ci cambiano profondamente. Superate le fasi critiche e accettati i cambiamenti, non ci resta che subire o reagire. La forza la si trova dentro di noi, dando impulso a potenzialità inaspettate. Scoprire capacità che mai avremmo pensato di poter avere, ci porta a pensare che nulla è per caso. Così è stato anche per me. Coincidenze e incastri che in questi anni mi hanno portato a scrivere e a conoscere persone che altrimenti non avrei mai incontrato. Un onore e un piacere. Un senso nuovo alla vita.

Storie di persone è il mio contenitore di esperienze. Emozioni fermate con le parole che custodisco e che ho intenzione di portare su carta, per poter rileggere nel tempo ciò che ho vissuto in questi anni. I lettori troveranno parole semplici scritte col cuore, racconti di cibo e di vino, di viaggio e di agricoltura, ricette della memoria e di tradizioni, ma soprattutto, troveranno storie di persone che hanno contribuito alla valorizzazione del territorio italiano.

  • Ho letto che ti sei definita una Farm Blogger: ci spieghi meglio cosa intendi?

Prima di diventare giornalista, sono stata costretta più volte a correggere chi erroneamente mi definiva una food blogger. Non lo sono, nel senso che più che a cucinare sono brava ad assaggiare. La verità è che il mio interesse è focalizzato soprattutto sulle materie prime. Mi piace conoscerne le origini e l’evoluzione. Visitare le aziende agricole guidata dai produttori in questi anni, mi ha permesso di imparare e di comprendere meglio le problematiche che rallentano la crescita economica italiana di questo settore. E’ da queste considerazioni che è nata la definizione di farm blogger.

  • C’è un viaggio o una particolare esperienza che ha inciso profondamente sul tuo cammino?

Ce ne sono molte. Diciamo che negli ultimi anni il mio è stato quasi un percorso a staffetta; durante ogni incontro me ne veniva suggerito un altro. Come non ricordare Lino Maga, Mario Maffi, Rossana Gaja, Beppe Rinaldi, Chiara Soldati, Gianni Vittorio Capovilla, Alberto Malesani, Chiara Boni, Giovanni Trapattoni, Peppino Montanaro, Tommaso Bucci, Fabio Lamborghini, e molti altri ancora. C’è un uomo che però mi ha colpito in particolare e a cui sono molto affezionata: Joško Gravner, il vignaiolo delle anfore. Nonostante lo abbia sentito definire ruvido e scontroso, io so per certo che non corrisponde al vero. Un uomo semplice e gentile dal carattere forte e deciso, un friulano.

Anche tu, come noi di Destinazione Umana, metti al centro la conoscenza delle persone: cosa significa secondo te, viaggiare verso una Destinazione Umana?

Significa viaggiare attraverso la conoscenza e l’esperienza delle persone. A volte ci dimentichiamo che la storia è di grande insegnamento.

 




“I francesi sono più bravi nel dire che nel fare, gli italiani sono più bravi nel fare che nel dire.” Tommaso Bucci

Era il 1981… inizia così la storia nel mondo del vino di Tommaso Bucci, un ingegnere chimico approdato a Montalcino grazie al progetto originale di Castello Banfi, la prima cantina al mondo ad ottenere la certificazione di responsabilità etica, sociale ed ambientale, e di qualità della produzione. Direttore tecnico di questa realtà vitivinicola per molti anni, ormai fa parte della sua storia. Un uomo semplice dalla grande cultura, che, oltre a guidarmi nella visita all’azienda, ha catturato la mia attenzione per la simpatia e per alcune sue affermazioni.

In realtà Tommaso quel giorno era li per caso…

Basta poco per capire che cosa cerco durante le mie visite, per questo, la persona che mi ha accompagnata, ha pensato bene di presentarmelo. La mia curiosità spesso va oltre le normali domande, perché cerca ‘quel qualcosa’ che per me fa la differenza, e che mi spinge a custodire ciò che vivo, oltre che attraverso le immagini, con le parole. Mi è bastato scambiare con lui poche battute per capire che aveva vissuto tempi e modi di un tempo che fu, e che rimpiango per la passione e l’entusiasmo con la quale gli uomini e le donne affrontavano le sfide. Per questo l’ho letteralmente rapito, e costretto ad avvisare a casa che non sarebbe tornato, perché una donna che aveva appena conosciuto l’aveva invitato a pranzo.

Castello Banfi

Che cosa c’è di più affascinante che conoscere le persone… Le loro produzioni, non necessariamente materiali, sono la naturale conseguenza della loro creatività che, unita all’esperienza, distingue gli italiani nel mondo per la loro genialità. Siamo un popolo strano… riusciamo a far emergere i nostri lati più critici, e molto meno le nostre potenzialità. Proprio per questo inizierò con un pensiero di Tommaso che certamente lascerà qualcuno perplesso: “I francesi sono più bravi nel dire che nel fare, gli italiani sono più bravi nel fare che nel dire.” Rifletteteci sopra un attimo. Mentre lo fate lascio a lui la parola…

Cinzia, le cose stanno così. Noi italiani siamo bravi nel “savoir faire”, mente i nostri cugini sono bravissimi nel “faire savoir”. Nel mondo del vino ciò è profondamente vero. Pensiamo per un attimo al fatto che laddove noi diciamo: -fermentazione in bianco-, loro dicono -fermentation liquide- ; la nostra -fermentazione delle uve rosse- diventa -fermentation solide- ; il nostro invecchiamento diventa -elevage- i profumi -bouquet- etc. Pensa ancora ai menu (bellissima edizione dell’Accademia italiana della cucina “150 anni di menu per 15 capi di Stato”).

Il francese la faceva da padrone, non solo per spocchia, ma soprattutto perchè loro sull’enogastronomia hanno cominciato con almeno un secolo d’anticipo… ma stiamo rapidamente recuperando. Pensa che le loro AOC nacquero nel lontano 1855 con NAP III, noi per le DOC abbiamo dovuto aspettare il 1963. Loro giustamente parlano di terroir (origine), noi stranamente di vitigni, etc etc…

Montalcino

  • Tommaso, era il 1981, e tu eri il direttore tecnico di Villa Banfi. Mi racconti il mondo del vino che hai vissuto in quegli anni?

Era un mondo, quello italiano, di consumatori robusti (quasi 100 lt/pro capite anno) soprattutto di vini sfusi prodotti in proprio o da amici. Consumatori che raramente erano interessati a storie, denominazioni, a viticultura e cantine…

  • “La Banfi non ha inventato niente, semplicemente si è messa su una polveriera e ha accesso la miccia.” Sono parole tue. Io mi permetto solo di aggiungere che bisogna avere la capacità di accenderla, ma soprattutto di tenerla accesa.

Sì, i tempi stavano cambiando. Mancavano alcuni ingredienti. Ricordo che stimolava molta ironia, a fine anni 70 inizio 80, il fatto che la progettanda cantina Banfi prevedesse un percorso di visita. All’epoca la cosa era considerata perlomeno stravagante: “un’americanata”. Fino all’86, “scandalo del metanolo dell’indimenticato Ciravegna di Narzole”, gli sparuti italiani in visita alla cantina erano distratti e insofferenti a ogni notizia, visto che il vino si faceva da millenni, e tutti o quasi l’avevano fatto, così come i loro padri e i loro nonni, e i nonni dei nonni.

Dopo l’86 abbiamo scoperto il vino. Le università italiane, da nord a sud, da economia a medicina, registrano il vino come argomento maggiormente ricorrente nelle tesi di laurea. Il settore vitivinicolo è l’unico che negli ultimi decenni è cresciuto, mentre tutto il resto: moda, tessile, chimica siderurgia automotive etc, ha perso drammaticamente peso e importanza. Secondo Angelo Gaja, un grande vino ha successo quando esiste una bandiera storica (Biondi Santi) ed una locomotiva commerciale (Banfi) ed ovviamente un contesto territoriale (umano e materiale) di grande fascino storico e contemporaneo. Più che mettere la miccia, abbiamo acceso il locomotore comunicando il territorio quando gli altri ancora non lo facevano.

  • Montalcino, città del Brunello. Sicuramente un grande vino, ma non l’unico di queste terre. Io per mia natura tendo a sostenere i vitigni meno conosciuti meritevoli per la qualità, perché amo la nostra storia vitivinicola, e  mai vorrei che andasse persa.

Qui il vino è stato sempre fatto, diciamo però che a partire dal 500 il vino principe è stato indubbiamente il MOSCADELLO. Come non ricordare i versi di Francesco Redi del suo Ditirambo di Bacco in Toscana del 1685. “…ma Tommaso Buccipremiato coronato sia l’eroe, che nelle vigne di Pietraia e di Castello piantò pria il Moscadello. Il legiadretto, il sì divino Moscadelletto di Montalcino…

Un tal vino lo destinò alle dame di Parigi e a quelle che sì belle, rallegrano il Tamigi.” Il Brunello è una scoperta recente, la prima citazione del supposto vitigno la fa: Giovanni Pieri (§) presidente dell’Accademia senese dei Fisiocritici, dopo aver visitato il Sud Africa ed avervi trovato alcune uve toscane come il Gorgottesco; tiene una sua disquisizione nel 1843 (edita da Pandolfo Rossi “8”). Racconta dei suoi esperimenti fatti nella tenuta di Presciano, in un suo latifondo collinare sopra Taverne D’Arbia, che aveva messo a disposizione dell’Accademia “…a sue spese …per giovare all’agricoltura senese” tramite  “ …tutti quegli esperimenti che all’Accademia parrà si faccino sull’agricoltura…”

Secondo quello che allora veniva definito lo stile moderno, aveva piantato nello stesso filare più varietà di uve, con viti maritate a testucchi di Gorgottesco, di Canajolo di Procanico, di Sangiovese, di Malvagia, di Marrugà e di Brunello.  Il Procanico era una varietà del Trebbiano, mentre è chiaro che il Brunello fosse allora distinto dal Sangiovese anche fuori dal territorio del comune di Montalcino. Presciano è infatti (ora, non allora) nel comune di Siena.

  • Tommaso, quando ti ho espresso la mia ammirazione per la bellezza dei paesaggi dell’Oltrepò Pavese, mi hai risposto dicendomi che quei territori soffrono la ‘sindrome dei castelli romani’. Per certo, quando ne parlo, mi rammarico del fatto che non vengano valorizzati come dovrebbe essere, e nel contempo, non venga supportato chi tenta di farlo. Come si suol dire: “Chi è causa del suo mal pianga se stesso.” Tornando a noi, mi spieghi meglio il significato della tua affermazione?

L’essere al centro del triangolo industriale Milano Torino Genova, quindi al centro di un mercato ricco e numericamente consistente, ha reso facile lo smercio dei vini, senza doversi ingegnare più di tanto per la relativa promozione, che, come al solito, richiede anche qualche cosa di buono da promuovere. Il vino si vendeva facilmente senza fare tanti sforzi. Ciò ha fatto dormire sugli allori produttori e sistema, che ora scontano pesanti ritardi nel rimettersi in marcia.

  • Ezio Rivella, un uomo che hai citato molte volte nei nostri discorsi con parole di stima e rispetto. Mi racconti qualche aneddoto del periodo passato insieme?

Ezio Rivella è stato ed è, una figura di grandissimo livello, assommando su se stesso le qualità del tecnico e quelle del manager imprenditore. Io lo conobbi nel lontano 1974, quando ancora studente d’ingegneria gli chiesi se era possibile fare un tirocinio nel suo studio romano di consulenza e progettazione nel campo enologico. Mi rispose: “Ovviamente si, ma a gratis”. La cosa si concretizzò nella primavera del 1976, e poi con l’assunzione nel 1979, dopo il mio servizio militare ed un paio d’anni di Cartiere Burgo (Torino, Corsico-Milano, Lugo di Vicenza, Ferrara).  All’assunzione mi disse: “Ti pagherò poco, perché i soldi te li rubano, ma ti farò fare molta esperienza, e quella nessuno potrà togliertela”.  Per anni mi sono complimentato con lui per aver mantenuto la promessa.

Castello Banfi - Montalcino




Oggi mando in cucina il cuoco… vi presento Lukasz, un cameriere!

Oggi voglio parlare di camerieri di sala, si, di quelle persone che al ristorante fanno la differenza. Ci accolgono, spesso ci intrattengono, e ci servono raccontandoci piatti, cibi e bevande. Sono pronti alle nostre richieste, e per lo più preparati alle nostre domande. Figure professionali di cui ritengo si parli troppo poco.

Qualche giorno fa mi sono sentita dire: “Cinzia, il cameriere di una volta non c’è più.” Secondo me è vero in parte; ci sono camerieri preparati e a volte improvvisati. Saper servire un piatto o una bevanda, con garbo e con la giusta presentazione, aggiunge qualità al locale e piacere all’ospite. Comunque sia, oggi inizierò a parlarvi di questo professionista iniziando da lui, si, da Lukasz Komperda, un cameriere diLukas sala che ho avuto modo di conoscere durante una cena all’Osteria del Pomiroeu di Seregno, in provincia di Monza e Brianza.

Sono certa che alcuni di voi penseranno ad una scelta più che scontata: parlare di un cameriere di un locale stellato da la certezza di non sbagliare. Non è proprio così. Io scrivo di gente impegnata, che, attraverso la conoscenza, mi permette di imparare e di approfondire tematiche che ritengo utile condividere.

Per certo vi racconterò di un giovane uomo che ha catturato la mia attenzione per la cortesia, per i modi, e per la preparazione. Un giovane come tanti che a sedici anni, durante le vacanze estive, ha iniziato a lavorare in una pizzeria sul Lago di Viverone, in Piemonte. Un autodidatta che conclusi gli studi scientifici, per anni ha svolto la sua attività nell’ambito dei catering formandosi grazie all’impegno e al tanto lavoro. Questa è la prova e la dimostrazione che la voglia di imparare parte soprattutto da noi.

Ho incontrato Lukasz qualche giorno fa, per conoscerlo meglio e per capire le difficoltà della sua professione.

Lukasz, sei nato in Polonia nel 1986 ma in giovane età ti sei trasferito con la tua famiglia a Ivrea, in Piemonte. Dopo aver concluso il liceo scientifico e aver fatto le prime esperienze nella pizzeria di cui mi parlavi, un incontro fortuito con un ospite durante una cena, ti ha fatto approdare al catering iniziando così la tua avventura nella ristorazione. Continua tu…

Cinzia, come già ti ho raccontato, ho visto l’incontro con questa persona quasi come un segno del destino. Nella vita difficilmente si trova subito il percorso professionale che realmente si vuole intraprendere, o meglio, quel desiderio di trovare gli spazi, le situazioni, le emozioni che fanno sì che la giornata sia soddisfacente. Vivere la ristorazione significa essere immerso a 360 gradi nel lavoro. Per questo motivo quello che si fa deve essere appagante per l’animo. In caso contrario diventerà controproducente per se stessi e per le persone che ci circondano.

Nel 2010, dopo varie esperienze nei catering e nei ristoranti di Torino e dintorni, sono approdato a Seregno, dallo chef Giancarlo Morelli. Una vera svolta per la mia vita, perché da quel momento mi si è aperta una finestra su ciò che vuol dire sul serio la conoscenza enogastronomica, e non solo. Sono partito dall’acquisizione di nozioni sulla materia prima, per poi passare alle tecniche di cucina, alle modalità di servizio, e all’abbinamento dei sapori di un piatto.

Insomma, sono passato dall’essere un semplice portapiatti ad un vero cameriere. Già, cameriere… quella figura che da anni vive nell’ombra. Sono tempi in cui l’attenzione è concentrata sullo chef e sulla cucina. Purtroppo ci si dimentica che ogni ristorante è quello che è grazie ad una squadra. Servono gli attaccanti… ma si deve avere anche un buon portiere per vincere le partite.

Ti scrivo alcune affermazioni che hai fatto durante la nostra chiacchierata. Me le approfondisci?

  • “Il cameriere di una volta non c’è più.”

Il cameriere di oggi che lavora nei ristoranti stellati o meno, deve sapersi reinventare. Deve ampliare a tutto tondo le sue conoscenze se vuole fare strada. È un mestiere dove non ci si può improvvisare…

  • “Un mestiere in cui devi prima raschiare il fondo.”

Bisogna partire dal fondo per apprendere le basi, imparando da chi da anni fa questo lavoro. Insomma, per spiegarlo con una metafora: le case si costruiscono dalle fondamenta e non dal tetto. Ogni esperienza, anche se negativa, aiuta a formare le persone, se queste ultime sanno mettere nel proprio bagaglio la luce anche dove c’è ombra.

  • “L’Alma, la scuola internazionale di cucina italiana, prepara alla professione ma non forma realmente gli studenti alla vera vita professionale.”

Ritengo che intraprendere la carriera partendo dal frequentare luoghi come l’ALMA, la scuola Internazionale di Cucina Italiana di Colorno, sia sbagliato, in quanto è una teoria che si allontana troppo dalla pratica.

  • “Nel Canavese la ristorazione è morta.”

Io provengo da una zona del Piemonte, il Canavese, dove non ci sono segnali di crescita, una linea piatta che si ripercuote anche sulla ristorazione.

Concludo con una domanda. Col senno di poi rifaresti il percorso che hai fatto per diventare cameriere di sala?

Dopo questo breve approfondimento posso dirti con assoluta certezza che rifarei tutto il percorso svolto fino ad ora. Oltre a formarti nel lavoro, la figura del cameriere secondo me ti aiuta a farlo anche al di fuori.  Stando così a stretto contatto con persone di tutte le estrazioni sociali, ti aiuta a comprendere meglio la realtà che ti circonda, perché con questo lavoro si conosce l’arcobaleno della società.

 

Foto in testata presa dal web




Ritorno al passato con… Davide Gangi

Davide Gangi, editor e responsabile di redazione del portale di enogastronomia e turismo Vinoway.com

Nel 2011 ho iniziato a scrivere proprio lì, nella mia rubrica: “L’Angolo di Cinzia”. Era l’inizio della mia avventura nel mondo della comunicazione enogastronomica. A dire la verità quando mi fu chiesto rimasi un po’ perplessa. Dopo aver riflettuto per bene accettai, ma solo a patto di poter raccontare le produzioni partendo dalle persone. Non ci si inventa esperti da un giorno all’altro, per scrivere di cibo e vino serve preparazione e anni di esperienza. Ma non solo, serve umiltà, vero credo e molta passione. La tenacia e la determinazione poi fanno il resto.

Ricordo una telefonata di Davide, e la richiesta che mi fece di scrivere solo dei territori della Lombardia, regione in cui per ora risiedo. Non ci trovammo d’accordo; per questo decisi di continuare per conto mio. Come ho scritto poco fa, quando si crede sul serio nel proprio operato, nonostante le difficoltà e spesso le delusioni, si va avanti. Con Davide, comunque sia andata, non ci siamo persi. La stima reciproca ci ha fatto superare le incomprensioni, e quando il tempo ce lo permette, non manca una chiacchierata.

Davide, ora a noi due, questa volta tocca a te rispondere alle mie domande.

  • Inizio col chiederti qual è il tuo pensiero su quanto ho scritto relativamente alla fretta di molti nel voler entrare nel settore della comunicazione enogastronomica. Il rischio nell’essere impreparati, è quello di trasmettere informazioni confuse che non generano vera cultura in un comparto importante come questo. Cosa ne pensi?

E’ un argomento abbastanza delicato e non vorrei peccare di presunzione o addentrarmi in dinamiche complesse. Vero è che la conoscenza enogastronomica, da parte di molti, si è allargata a macchia d’olio proprio attraverso la quantità di informazioni presenti ad ogni livello mediatico, ma questo ha determinato un over booking che spesso crea più confusione che reali arricchimenti culturali. Molti oggi si atteggiano a “Robert Parker” o a ispettori di grandi guide gastronomiche e questo senz’altro non fa bene al settore.

  • Torniamo a te. Raccontami com’è iniziato il tuo percorso nell’enogastronomia?

La mia passione per l’enogastronomia ha origini lontane, pensa che a diciassette anni ho iniziato a fare pianobar nei migliori ristoranti di Catania e mi affascinava la ristorazione e tutto ciò che la circonda. Ho avuto la possibilità di conoscere bravissimi Chef e Gourmet che mi hanno spiegato molte dinamiche del settore. Ho fatto scuola di sommelier e assaggiatore, ho preso qualche lezione di cucina e mi sono prestato ad essere giudice di guida di vini. Ho appreso molto solo bevendo e confrontandomi, ma ancora oggi non mi sento in grado di definirmi un intenditore o un esperto, non lo potrò essere mai perché sono consapevole che esiste sempre qualcuno che ne sa più di me. Posso dire che in questa realtà è importante non essere mai arroganti, presuntuosi e che l’umiltà è la forza vincente.

  • Dirigi Vinoway ormai da diversi anni. Vuoi fare una riflessione sull’evoluzione della comunicazione in questo settore nell’ultimo decennio? Te lo chiedo perché secondo me c’è molta voglia di ritorno al passato, nel senso che c’è nostalgia del modo in cui una volta si raccontavano le produzioni e le persone protagoniste. Ovviamente questa è solo la mia opinione, quella di una donna che ama il mondo agricolo, e che con molta passione ne ascolta le storie e le difficoltà.

In effetti è come dici tu, gli appassionati del settore vogliono sentirsi vicini ai produttori, agli chef, ai gourmet, per capire le loro origini, i sacrifici, le loro storie… In questo li possiamo aiutare noi attraverso la comunicazione che senz’altro è cambiata in questi ultimi anni, così come è cambiata la realtà socio-economica in cui viviamo, ma la comunicazione del vino o del settore non è sufficiente se non c’è lo sforzo anche da parte degli addetti ai lavori di rendere accessibile un po’ a tutti la possibilità di frequentare ristoranti ed enoteche.
Viviamo un periodo di crisi che scoraggia gli appassionati ad avvicinarsi a determinate realtà, quindi è apprezzabile l’impegno di molti di creare “assemblee”, eventi dove anche con cifre modeste si possono degustare cibi e vini prelibati.

  • Siamo a pochi mesi da Expo2015, un evento unico per l’Italia sull’alimentazione e la nutrizione che andrà comunicato al mondo. E’ pronto lo staff di Vinoway?

Si tratta sicuramente di un evento importantissimo e, così come siamo stati presenti in altre fiere e rassegne, stiamo lavorando per una nostra partecipazione alla manifestazione. Non farmi dire altro…

  • Domanda di rito. Bilanci e progetti per il futuro?

Il bilancio è senz’altro positivo, avevamo programmato un percorso e posso sicuramente affermare che siamoDavide Gangi andati oltre le più rosee aspettative.
Abbiamo saputo creare, anche con qualche difficoltà, un team affiatato e competente, formato da autori selezionati in tutto il territorio nazionale e dal lavoro “oscuro” e prezioso del mio socio-amico Alessandro Ren, ideatore di Vinoway.
Vinoway è diventata associazione culturale, Vinoway Italia, abbiamo creato anche un’agenzia di comunicazione, Acinus, e stiamo lavorando per l’apertura di due piattaforme che saranno dedicate al turismo e al mondo della birra. Stiamo aprendo un ufficio estero che servirà per creare contatti con le aziende che vorranno affidarsi a noi per la loro crescita attraverso la partecipazione a fiere, work shop, eventi e congressi internazionali. Saremo presenti in molte fiere nazionali ed internazionali per il 2015/2016 e organizzeremo eventi in molte regioni italiane.

  • Amo la Puglia, un amore dettato dalla bellezza dei suoi territori, dal suo mare, dalla sua storia, e dalla sua meravigliosa cucina tipica. Indimenticabile un piatto della tradizione salentina tra i più buoni che io abbia assaggiato: i ciceri e tria. Una cuoca che difficilmente dimenticherò, me l’ha preparato a Torre dell’Orso qualche anno fa. Sono certa, visto che sei pugliese, che avrai avuto modo di apprezzarlo. La cosa che mi lascia perplessa è che ai più del settore, anche agli stesi pugliesi, è sconosciuto. Sono dell’idea che gli italiani gradirebbero, più che fantasiose creazioni, proposte della grande tradizione regionale.

Amo anch’io la Puglia e mi sembra riduttivo racchiudere la cucina in un solo piatto, anche se apprezzabile. La tradizione gastronomica pugliese è molto ampia e mi fa piacere ricordare anche cicorie e fave, orecchiette con le cime di rape, la focaccia, i panzerotti, le burrate, riso patate e cozze, il marro e molte altre prelibatezze che varrebbe la pena di assaggiare.
Proprio per questo abbiamo iniziato con la Puglia una serie di eventi nella Capitale, “Degustazioni Romane”, dove abbiamo selezionato le migliori eccellenze enoiche e gastronomiche del territorio ed andremo avanti anche con altre regioni italiane per far conoscere ed apprezzare il meglio della ricca produzione nazionale.

Concludo con un saluto, ma soprattutto con un arrivederci.




Nadia Moscardi, ristoratrice abruzzese: “Dopo il terremoto non mi spaventa più nulla…”

In testata legumi adagiati su crema di buccia di patate con verdure croccanti, rapa rossa, cavolo viola, verza, spinacino e scaglie di tartufo.

Imparare a superare le difficoltà tempra il carattere e permette di scindere il superfluo dall’essenziale. Un terremoto come quello de L’Aquila, che a molti ha raso al suolo ogni certezza costruita negli anni, cambia la prospettiva delle cose. Così è stato per Nadia Moscardi, cuoca di ‘Elodia, il ristorante di famiglia a Camardia frazione de L’Aquila, raso al suolo dalle scosse e poi ricostruito. “Cinzia, noi siamo una famiglia unita, questa è la forza che ci ha permesso di andare avanti.” Condivido in pieno il suo suo pensiero. La famiglia è il vero punto fermo da cui trarre energia. Non è necessariamente una questione parentale, per me è soprattutto una questione di verità e di affetti sinceri, su cui contare nei momenti difficili.

Elodia, il nome di sua madre. Quarant’anni di attività che oggi continuano con un percorso legato ad una tradizione familiare Nadia Moscardigastronomica, portata avanti nel segno della Natura. Ho incontrato Nadia e la sua cucina, fatta di radici ed erbe spontanee, all’undicesima edizione di Identità golose 2015. Conclusa la sua presentazione, ho avuto modo di conoscerla attraverso scambi di vita e di esperienze, come è mia consuetudine fare, per capire meglio le persone e conseguentemente il loro operato.

A lei la parola…

  • Nadia, nel tuo intervento a Identità Golose hai citato diverse piante spontanee che raccogli personalmente nei campi. Mi riferisco al rosolaccio, alla piantaggine, al sedano d’acqua, ai semi di panace o ancora ai semi di lunaria. Da appassionata di erbe e di radici devo ammettere che alcune non le conoscevo. Perché non mettere a frutto questo tuo sapere insegnando alle persone a riconoscere queste piante, e soprattutto ad utilizzarle?

Questa è una bellissima idea! Sarebbe molto bello organizzare una giornata sul Gran Sasso con una bella passeggiata tra i boschi e i prati per raccogliere erbe, radici e fiori, e poi tornare nel mio ristorante per cucinarli. 

  • Sono convinta che il segreto per stare in salute sia nella natura. Se ti dico che ‘ci si cura mangiando’ cosa mi rispondi?

Credo fortemente in questa tua affermazione. La nostra salute dipende molto da quello che mangiamo. Siamo purtroppo presi da una vita troppo frenetica per curare al meglio la nostra alimentazione. Le erbe spontanee sono ottime per la nostra salute, specialmente mangiate crude. In questi giorni sono in elaborazione altre ricette con questi vegetali miracolosi.

  • Dopo alcune ricerche, come ti dicevo di persona, ho incominciato ad apprezzare sempre di più i semi, gli oli e le farine ottenute dalla canapa, una pianta che contribuisce a sanare i terreni inquinati, dai molti impieghi e dalle tante virtù terapeutiche. Sono certa che ho stuzzicato il tuo interesse.  Mi prepari un piatto con i suoi derivati quando verrò a trovarti?

Hai decisamente stuzzicato il mio interesse, infatti mi sto documentando molto sulla canapa e vedremo cosa succederà…

  • La pastinaca, un’antica radice bianca tipica aquilana che coltivi nel tuo orto. Mi dai qualche consiglio per cucinarla?

Cinzia, si può realizzare una crema di pastinaca facendo un frullato della radice e patate lessate, condita semplicemente con sale, pepe e olio extravergine di oliva. Oppure si possono fare del cips di pastinaca facendo delle sfoglie sottili della radice fritte.

  • A proposito della tua ‘amatriciana bianca’… mi spieghi di che cosa si tratta?

L’amatriciana bianca è un piatto della tradizione aquilana; sono spaghetti o maccheroni alla chitarra fatti con un condimento di guanciale e pecorino, con l’aggiunta di pepe o peperoncino. È una ricetta originaria della città di Amatrice che oggi si trova nel Lazio, ma che fino al 1927 è stata in provincia de L’Aquila. Una preparazione semplice in cui sono  fondamentali ingredienti di altissima qualità: il pecorino e il guanciale dei monti abruzzesi.

Si rosola in una padella di ferro il guanciale tagliato a striscioline, con un pizzico di pepe o peperoncino; si aggiunge la pasta e poi abbondante pecorino abruzzese. Il mio consiglio, per avere un risultato più cremoso, è quello di unire il pecorino e poca acqua di cottura in padella prima di versare la pasta.

Amatriciana bianca

Amatriciana bianca di Nadia Moscardi

www.elodia.it




Filippo Flocco, stilista teramano d’alta moda. Ora ve lo presento, anzi, lo mando in cucina a preparare il risotto alla malva.

Filippo Flocco, uno stilista teramano d’alta moda che ha iniziato la sua attività negli atelier storici italiani all’età di sedici anni. Da otto anni la collaborazione con una Maison francese lo porta spesso nel quartiere latino di Parigi. Quando è li, vive in un piccolo appartamento, che però ha una dirimpettaia molto speciale: Monica Bellucci.

Non è la prima volta che ho a che fare con degli stilisti. Quando ne ho l’occasione mi piace parlare di stile, quello che ciascuno dovrebbe seguire semplicemente perché lo sente come suo, e non come moda del momento. Mi riferisco ad alcuni accessori che a volte mi piace usare, ma che mi fanno etichettare come persona eccentrica e bizzarra. Non che la cosa mi scomponga alquanto, visto che ormai è la normalità a farmi preoccupare.

Con Filippo ci siamo conosciuti recentemente attraverso amicizie comuni, prima con uno scambio di battute sul web, e poi, chiacchierando a lungo, sia pur divisi da un monitor. In comune abbiamo alcune passioni come la montagna, l’amore per gli animali, la buona cucina, le ricette storiche e le erbe spontanee.

Ora ve lo presento, anzi, lo mando in cucina. 😉

  • Filippo, per esigenze di lavoro vivi tra Teramo e Parigi. Mi viene spontaneo chiederti: “Cucina italiana o cucina francese”?

Italiana, assolutamente, anche se c’è un piatto della cucina francese che amo particolarmente e che ogni tanto propongo agli amici che ospito: la zuppa di cipolle. Per il resto trovo le preparazioni della cucina francese assolutamente ricercate, certo con degli impiattamenti elaborati ed esteticamente raffinatissimi, ma molto lontani dal mio modo di approcciarmi alla cucina.

  • Anche se sei spesso all’estero dalle tue parole ho capito chiaramente che le tue radici sono ben salde a Teramo. Cosa ti manca di più della tua città quando sei lontano?

Mi manca la famiglia. Anche se sono una persona con pochissimi legami parentali, quando sono in Abruzzo, in particolare a Teramo, è come stare davvero “a casa”. Conosco molte persone, da anni, alcune mi sono molto care. Poi ci sono le mie passeggiate nei dintorni… Abbiamo un mare stupendo e delle montagne fantastiche a pochi chilometri. In pochissimo tempo puoi essere dove vuoi, perché siamo centralissimi e ben collegati.

  • Mi hai raccontato che raccogli e utilizzi erbe spontanee nelle tue preparazioni. Quali sono in particolare le tue preferite?

Cinzia, te ne cito alcune. Li ‘cascigni o il grespino’ ad esempio, è una pianta spontanea con proprietà diuretiche già conosciuta al tempo di Plinio il Vecchio. Si usa per una preparazione tipica abruzzese a base di fagioli. Durante le passeggiate con i miei cani, sulle colline, raccolgo il ‘cavolo rapiciolla’, una pianta annuale con un fusto legnoso che si trova un po’ ovunque.

  • Nei nostri discorsi hai citato il risotto alla malva. Come lo prepari?

Ti do la ricetta. Uso circa 500 grammi di riso non raffinato, circa 120 grammi di burro intero che prendo in un mercato di contadini scendono a valle in un posto dove andavo da piccolo con mia mamma, un paio di litri di brodo vegetale, 100 grammi di ricottina di pecora morbidissima, e pecorino di Atri fresco grattugiato. Infine, una manciata di fiori di malva che raccolgo personalmente
In una casseruola tosto il riso nel burro intero, a me piacciono quelle di coccio. Poi, verso il brodo caldo. Trascorsi 5 minuti di cottura unisco le foglie di malva scelte fra le più giovani e sane. Poco prima che il riso sia cotto, unisco la ricottina, il pecorino atriano fresco, e lascio mantecare. Dopo averlo fatto riposare qualche minuto lo servo decorandolo con fiori di malva.

  • Ami la storia come me. Mi raccontavi di antiche ricette…

Da un paio di anni ho fatto delle ricerche sulla storia del costume, dal medioevo al barocco italiano. Tra i vari libri che ho trovato, visitando polverose biblioteche comunali, mi ha colpito un “libricino” vergato con preparazioni gastronomiche scritte a mano. Una strana commistione di sapori spagnoli e francesi, credo si trattasse di  un ricettario che portava in “dote” una fanciulla che si preparava a sposare un signorotto del luogo. Era pieno di appunti e spunti, che magari se riproposti, potrebbero diventare una vera novità. Perché in fondo, anche la cucina come l’alta moda, che è il mio vero campo di competenza, non è altro che una forma di creazione. La restituzione di una realtà preesistente, rinnovata attraverso gli occhi e l’amore dello stilista o del cuoco, in questo caso…

 




Chiara Boni, una stilista in equilibrio con la natura

Chiara Boni, una delle grandi firme italiane della moda. L’ho incontrata qualche giorno fa a Milano, nel suo ambiente, tra le persone con cui collabora da anni. Una stilista fiorentina che ho conosciuto attraverso i suoi pensieri, veri attacchi poetici la cui spinta ben comprendo. La sua, una sensibilità espressa nel lavoro e nel rispetto dell’ambiente.

Perché mai incontrare una stilista? Come dico spesso l’Italia ha molti punti di forza da promuovere: l’agricoltura, l’enogastronomia, il turismo, l’arte, la moda… Ognuno tenta di farlo a modo suo. Per quanto mi riguarda, cerco di conoscere meglio le persone che ne sono protagoniste grazie alla loro creatività e al loro impegno. Seguirle durante il loro lavoro mi permette di valorizzarle quando ritengo che possano fare bene all’economia italiana.

Premesso questo, non nascondo che da sempre apprezzo lo stile e l’eleganza. In una società di corsa, in cui il tempo non è maiChiara Boni sufficiente, Chiara ha saputo coniugare la praticità senza trascurare la femminilità. Ma non solo, la sua è una moda in equilibrio con la natura, una produzione eco-sostenibile controllata sin dall’origine.

Per i suoi abiti si avvale infatti della collaborazione di un’azienda italiana attenta all’ambiente che, dal 2001 al 2008, è stata in grado di ridurre per ogni kg di tessuto prodotto il consumo del 5% di energia elettrica, del 13% di metano, del 19% di acqua, di 21 tonnellate il consumo di carta e carbone, e del 25% il consumo di coloranti e prodotti chimici. Questi ultimi, ahimè, sono causa sempre più frequente di irritazioni e di allergie alla pelle.

La sua, una passione per la moda nata da bambina con la frequentazione insieme alla madre di sartorie ed atelier. Dopo l’esperienza londinese, nel 1967,  la ribellione al rigore e all’essenzialità della moda italiana di quegli anni, si è espressa con una ‘boutique di rottura’ aperta nel 1971 a Firenze. Negli anni ottanta, l’importante collaborazione con il Gruppo Finanziario Tessile di Torino durata quindici anni, poi, dal 2000 al 2005, l’esperienza in politica come Assessore per l’Immagine e la Comunicazione della Regione Toscana.

Una ‘ricerca della flessibilità’ attraverso la sperimentazione sui materiali, che nel 2007 ha portato alla nascita della ‘La Petite Robe’. Abiti in tessuti stretch in tante versioni che non si stropicciano, ideali per la valigia. Dal 2009 la collaborazione con  il biellese Maurizio Germanetti, ha dato un’ulteriore svolta alla sua vita. In America oggi è presente con uno show room a New York, e nei più importanti department store.

Una giornata con Chiara Boni

Una sola domanda.

  • Chiara, in un progetto di ‘Città Ideale’ qual è il tuo ruolo?

Cinzia, la ‘Città Ideale’ è un intreccio di attitudini creative, un sodalizio che vede coinvolti Urbanistica, Design, Food e Moda, come protagonisti di un’etica urbana.

Il mio ruolo è quello di offrire un’opinione ‘femminilista’ all’evoluzione del concetto urbano. ‘Femminilista’ è lo stile di chi, come me, ha intrapreso da anni una ricerca flessibile alle esigenze della donna nel segno della femminilità.

Dopo un incontro, come sempre, sento la necessità di metabolizzare ciò che vivo per trarne i giusti insegnamenti. La giornata passata con Chiara mi ha fatto comprendere quanto la moda possa contribuire al rispetto dell’ambiente. Conoscere una produzione ecosostenibile significa conoscere i metodi di coltivazione di materiali, che esigono il rispetto per la natura e il minimo impiego di prodotti chimici. I comportamenti etici per la realizzazione dei tessuti, salvaguardano l’ecosistema e la nostra pelle.

Chiara Boni e la sua collaboratrice Monica Galleri

Vestita da Chiara Boni e dalla sua collaboratrice Monica Galleri

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