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Ricordi d’estate e… di “Frico Friulano”

Ricordo quando da bambina, durante le vacanze estive in campagna, ci si organizzava per la consueta gita dai cugini in Friuli…

Lungo la strada, mentre guardavo dai finestrini il susseguirsi dei bei paesaggi della Carnia, in provincia di Udine, ascoltavo i racconti che gli zii facevano dei miei bisnonni di Trava e di mio nonno Emilio.  Ci ha lasciati poco tempo prima che io nascessi… il mio secondo nome è in sua memoria.

Un uomo creativo e ingegnoso, generoso e di buona compagnia, così ama ricordarlo mio cugino Giuliano. Ha vissuto in Carnia fino a quando l’amore per mia nonna, Luigia, l’ha portato a trasferirsi in un paesino del Trevigiano.

La Carnia, una terra tra le montagne abitata da uomini e donne operose, i Friulani. Giuliano vive ancora li…

“La Carnia è un luogo dove sei in pace con te stesso e con il mondo… è l’armonia tra l’uomo e la natura.” Giuliano De Colle

Oggi in suo onore voglio ricordare un piatto tipico della tradizione Friulana che amo molto, il Frico. Un piatto dalle origini antiche, citato per la prima volta nel 1400 dal maestro Martino da Como nell’opera “De Arte Coquinaria”. Qui di seguito riporto la ricetta tipica di famiglia.


  Il Frico Friulano

Dosi per 4 persone:

  • 2 cucchiai d’olio
  • mezza cipolla
  • 500 gr. di patate
  • 250 gr. di formaggio montasio
  • sale q.b.

Preparazione:

– Tagliare finemente la cipolla, rosolarla in una padella antiaderente e unire le patate tagliate a lamelle fini.

– Salare e cuocere per  20 minuti  mescolando spesso il tutto.

– Quando il composto si è ben amalgamato, aggiungere il formaggio tagliato a scaglie sottili fino a farlo fondere.

– Girare più volte il frico in modo da creare una crosta uniforme e dorata.

A questo punto non mi rimane che augurarvi buon appetito salutandovi  come  si conviene in Friuli…  mandi! 😉




“Tano, passami l’olio, ma… per il minestrone!”

Chi sa fare il minestrone alzi la mano!  

Direte: “Ehh Cinzia, che ci vuole a farlo!” E invece no! Un buon minestrone se fatto bene, va fatto a regola d’arte… anzi, a regola di Tano! E non è finita… Ora vi chiedo: “Minestrone d’inverno o minestrone tutto l’anno?” Io tutto l’anno… e voi?

Amo il minestrone, d’inverno bello caldo, e d’estate tiepido. Un mega concentrato di verdure di stagione, di vitamine e di sali minerali. Peccato che per molti d’estate sia, come dire… un piatto inadeguato. Io insisto, e comunque me lo faccio!

Ma siamo veramente capaci di fare il minestrone?

Qualche giorno fa si discuteva con lo chef Giancarlo Morelli degli errori che i più fanno nella preparazione del minestrone. Neanche a farlo apposta mi sono ritrovata pochi giorni dopo a riparlarne con lo chef Tano Simonato. Mi ha ribadito l’errore comune, mio compreso, nel procedere alla cottura mettendo insieme tutte le verdure.

Basta, ho deciso, voglio sapere come si fa sul serio il minestrone!

Cinzia,  basta dirlo… ecco la ricetta:

“Il Minestrone freddo di Tano Simonato”

Ingredienti:

  • Per il brodo:

Carote, zucchine, sedano, cipolla bianca, pomodori ramati, basilico, alloro, bacche di ginepro.

Preparazione:

Dopo aver mondato tutte le verdure tagliate a pezzi, lasciare sul fuoco per almeno tre ore a fiamma bassa.

Passare a chinoise (colino) e tenere solo la parte liquida.

  • Per le verdure:

Carote, zucchine, ceci, piselli, patata, fave.

Preparazione:

Mettere a bagno i ceci la sera prima (almeno 18 ore); mettere in cottura e tenerli al dente, circa 50 min.

Mondare le verdure e portare a cottura come segue:

       – Tagliare le carote a concassè e lessare tenendole al dente.

       – Tagliare le zucchine e lessare tenendole al dente.

       – Sbollentare i piselli in acqua già bollente per pochi minuti e tenerli al dente.

       – Sbollentare le fave in acqua già bollente per pochi minuti e tenerle al dente.

       – Sbucciare le patate e tagliarle a concassè e lessare in acqua già bollente e tenerle al dente.

       – Sbucciare una patata e lessarla a lungo, per poterla poi schiacciare con schiacciapatate.

Tutte le verdure vanno salate nell’acqua con poco sale.

Tenere tutto separato sino al momento di preparazione del minestrone.

  • Per il riso:

Portare a cottura in acqua già bollente del riso vialone nano tenendolo al dente; salarlo della metà di una normale cottura.

Preparazione del minestrone:

Mettere la patata schiacciata nel brodo e rimestare; aggiungere tutte le verdure ed infine il riso. Naturalmente tutto a freddo. Aggiustare di sale e un po’ di zucchero.        

Impiattare in fondina e servire con olio evo (extra vergine d’oliva).

 




Vino cotto, mosto cotto o… tutti e due?

La ricetta: “Caldidolci al Vin Cot di Quistello”

Vino cotto o mosto cotto? Direi tutti e due, ma siamo sicuri di conoscere la differenza? Per fare un po’ di chiarezza mi  farò aiutare dai produttori.

Recentemente, dopo aver conosciuto meglio entrambi i prodotti, mi sono resa conto che non tutti ne conoscono le differenze. Ambedue ottime produzioni, diverse però sia per densità che per gli usi a cui sono destinate.

Partiamo innanzitutto dal presupposto che ilvino cotto del Picenoè un vero e proprio vino. E’ ottenuto dalla bollitura del mosto dei vitigni di Verdicchio, Trebbiano, Montepulciano e Sangiovese, e viene invecchiato in botti di legno di rovere. E’ un vino da dessert, utilizzato anche nella preparazione di dolci e per insaporire le carni. Oltretutto è un ottimo rimedio per curare tosse e raffreddore, e per chi come me, ama la medicina naturale, questo è già un ottimo motivo per parlarne.

Me lo ha fatto conoscere Emanuela Tiberi dell’Azienda Agricola David Tiberi di Loro Piceno, con la quale, durante una serata del girotondo enogastronomico “Per Tutti i Gusti” coordinato da Carlo Vischi, ho avuto modo di chiacchierare.

Passo ora al “vino cotto mantovano” che, nel termine dialettale, viene chiamato “vin cot”. L’ho conosciuto grazie alla cara Paola della Cantina Quistello di Mantova, prima su Twitter, e poi di persona a GourMarte, la manifestazione enogastronomica coordinata da Elio Ghisalberti.

La Cantina sociale di Quistello è una cooperativa costituita nel 1928 da un gruppo di viticoltori la cui produzione si estende lungo le rive del fiume Secchia. Un territorio ricco di antiche tradizioni viticole e gastronomiche che ben conosco e apprezzo per le mie origini paterne mantovane.

Dunque, qui ad aiutarmi a far chiarezza è il loro Presidente, che mi definisce il loro vino cotto non un vino, ma un mosto cotto; è usato come condimento per piatti di carne, per insalate, e anche per dolci.

Come stabilito da disciplinare di produzione del vin cot, la materia prima utilizzata è il mosto d’uva Lambrusco Grappello Ruberti, vitigno storico coltivato nella zona di produzione dell’IGP Quistello. E’ un prodotto con molta concentrazione di zuccheri d’uva e senza alcol.

In conclusione, tornando alla questione che ho posto inizialmente su: “vino cotto o mosto cotto?” direi proprio tutti e due. Utilizzerò il “Vin Cot di Quistello” nella preparazione di un dolce da loro stessi consigliato, e il “Vino Cotto del Piceno” come vino da dessert per accompagnarlo. 😉

“Caldidolci al Vin Cot di Quistello”

  • Ingredienti:

Un litro di latte, 3 bicchieri di farina di mais sottile, un pizzico di sale, zucchero qb, un pezzetto di burro, una manciata di uva passa, pinoli qb, un goccio di Vin Cot di Quistello.

  • Preparazione:

Preparare una polentina portando a ebollizione il latte mentre si aggiunge a pioggia la farina di mais e un pizzico di sale. Rimestare bene, fino a quando la farina sarà cotta. Aggiungete sempre mescolando, lo zucchero, un pezzetto di burro, un goccio di VinCot e per ultimi l’uva passa e i pinoli.

Con la polentina ottenuta formare tanti biscottini ovali e lasciarli riposare per qualche ora. Passateli poi al forno, facendo attenzione a non seccarli.

I “Caldidolci” come dice la parola stessa, vanno serviti caldi.




“La Famiglia Serandrei… una storia Veneziana di terra e di mare”

La ricetta : “Bigoli in salsa con vellututata di Porri e Pane fritto”

Come diceva William Shakespeare, c’è una storia nella vita di tutti gli uomini, e ascoltarle è la mia passione.  Qualche sera fa, seduta accanto a Kim e a Gianni Serandrei, in occasione del 50’ anniversario del Ristorante “La Caravella”,  ho passato piacevolmente una serata ascoltando la storia di una famiglia Veneziana in una città che da sempre mi riempie gli occhi, il cuore e l’anima…

“Senza ricordi non siamo nulla. Così è per i popoli. Gli italiani sono la somma delle esperienze fatte nella Storia. Se si perdono, si ritorna ad essere il volgo confuso che voce non ha. Così è per il vino e per l’enogastronomia. La cucina povera che diviene ricchezza, il vino dei contadini che diventa DOC. Anche questo è Storia. Le nostre radici hanno fatto nascere il popolo Italiano, con le sue tradizioni, con la sua creatività, con le sue eccellenze conosciute nel mondo”. Giorgio Ferrari, Professore di Storia Contemporanea

Era l’anno 1905 quando Zoe Lustig di origine Ungherese, e Ugo Serandrei, nato a Pisa ma trasferitosi a Venezia, si sposarono. Presero in affitto una piccola pensione di otto stanze che chiamarono “Internazionale” e iniziarono  l’attività alberghiera.

Ugo, una volta tornato dalla grande guerra, insieme al figlio Renzo si dedicò all’albergo ampliandolo e migliorandolo. Nel 1908 nasceva l’Hotel Saturnia & International. Saturnia, antico nome virgiliano dell’Italia.

Situato nel cuore della città, tra Piazza San Marco e le Gallerie dell’Accademia, l’hotel era il punto ideale d’incontro per ritornare, dopo la guerra, a quella voglia di normalità che permettesse di riparlare d’arte e di cultura. Sotto la guida di Renzo Serandrei, nacque così il Ciro’s bar, famoso locale dell’epoca annesso all’hotel, che ebbe l’onore di accogliere personaggi quali Sartre e Simone de Beauvoir.

Nel 1963 un’ulteriore svolta. Il Ciro’s bar venne trasformato da Renzo, grande appassionato di cucina, nel Ristorante “La Caravella” chiamata così per gli interni che riportavano alla memoria i caratteristici ambienti di un antico veliero.

La creatività di Renzo, uomo in continua ricerca, fece si che il ristorante si aggiudicasse per ben venticinque anni consecutivi la stella Michelin. Cinquant’anni di storia e di tradizione: 1963 – 2013.

La continuità nella conduzione familiare ha fatto si che, dopo la morte di Renzo, seguisse l’attività il figlio Alberto.  Dal 2012 l’hotel è gestito da Ugo Serandrei coadiuvato dai figli, quarta generazione della famiglia: Marianna, Gianni, Kim e Greta-Zoe.

Dal 2000 una nuova scommessa, l’Hotel Ca’ Pisani che, come Kim Serandrei mi ha raccontato, si ispira ai principi dei “Design Hotel” reinterpretando il gusto art déco in chiave contemporanea. Essendo un’appassionata di storia che recupera pezzi antichi qua e la, mi ha colpito come, con pazienza, hanno collezionato letti originali anni ’30 e ’40, tutti diversi tra loro.

Chiacchierando seduta a fianco a Kim ho potuto notare la sua capacità di “guardare oltre”. Non tutti la possiedono, è una capacità che si acquista attraversando le difficoltà… che dona ricchezza d’animo e sensibilità. Ad un tratto, mentre gli raccontavo la mia abitudine di raccogliere pietre e sassi a ricordo dei luoghi che visito, mi ha detto: “Cinzia indovina? Mia madre è geologa!”

Rossana Serandrei Barbero, una donna di terra in una città di mare. Le ho chiesto il perché della sua scelta di vita, e, conseguentemente ai suoi lunghi studi legati alle fondamenta di Venezia, mi sono aggiornata sullo stato di salute della città.

  • La mia scelta di vita è presto spiegata. Da adolescente ero innamorata pazza della montagna, delle rocce e, per estensione, dell’arrampicata. Mi sono iscritta a geologia perché volevo fare il geologo in Terra del Fuoco. Ho studiato per quarant’anni il sottosuolo di Venezia e posso affermare che la sua salute, compatibilmente con l’età, può essere definita buona.  Rossana Serandrei Barbero

Durante i nostri discorsi di terra e di mare, quella sera, festeggiando i cinquant’anni di storia de “La Caravella”, lo Chef Silvano Urban ci ha raccontato la sua cucina semplice e rispettosa della tradizione e delle materie prime di qualità.

Oggi si parla di cibo in molti modi: si passa dallo show food al food art, dal media food al concept food fino ad arrivare al food design. Secondo me è giunto il tempo di ritornare alle origini, ovvero ad una cucina in cui la ricerca si basa proprio sullo studio del prodotto, senza volgarità, senza eccessi e senza il disperato tentativo di spettacolizzare a tutti i costi.”

A conclusione di questa mia storia voglio riportare la ricetta del primo piatto scelto dallo Chef Silvano Urban, un piatto tipico della tradizione.

Bigoli in salsa, serviti tiepidi con vellutata di porri e pane fritto

 

Dosi per 4 persone

Ingredienti:

  • 200 g di cipolle;
  • mezzo bicchiere di olio d’oliva;
  • sale quanto basta;
  • 300 g di bigoli scuri (spaghetti integrali);
  • 75 g di acciughe sotto sale;
  • un pizzico di pepe;
  • briciole di pane.

Procedimento:

Sbucciate le cipolle e affettatele finemente. Poi, versate in una padella la metà dell’olio e unitevi le cipolle; fatele appassire a fuoco basso. Cuocete a recipiente coperto, per circa 15 minuti, bagnando le cipolle di tanto in tanto con un po’ d’acqua (non più di un bicchiere in tutto), mescolando il composto fino a che si saranno ridotte in poltiglia. Nel frattempo, mettete sul fuoco l’acqua per la cottura della pasta: appena bolle, salatela e buttate la pasta.

Quando le cipolle saranno cotte, aggiungete le acciughe precedentemente lavate, dissalate e diliscate; con una forchetta schiacciatele ripetutamente, fino ad ottenere una salsetta marrone. Quindi spegnete il fuoco e unite al sugo l’olio rimasto, mescolando. Scolate i bigoli, rovesciateli in una terrina, conditeli con il sugo preparato e del pane fritto sbriciolato.

Tagliate a rondelle 200 grammi di porro; fatelo appassire con un filo d’olio e poca acqua. Correggete il composto di sale e quando sarà cotto, frullate il tutto ottenendo una crema morbida, ma sostenuta, che andrà ad accompagnare la ricetta. Infine, completate il piatto con briciole di pane fritto e filo d’olio extra

L’aggiunta dell’ultimo ingrediente, ovvero i porri, ha l’obiettivo di attenuare il gusto forte delle acciughe. “E’ un piatto spiega lo stesso chef,  che non scende a compromessi con le moderne visioni culinarie”.




“La zuppa di Porcini di Gualtiero”

Il caro Gualtiero… e badate bene, non il Gualtiero noto ai più.

Qui di seguito racconto di un uomo di novantun anni dalle mille passioni… un uomo dei bei tempi che furono, un uomo che una sera a Treviso mi ha stravolto di emozioni.

Gualtiero Basso padre della cara amica Alessandra, è nato a Treviso il 2 Luglio del 1921. Figlio di un odontotecnico ha continuato l’attività del padre, ma non solo…

Durante  la seconda guerra mondiale arruolatosi nella G.a.F., la Guardia alla Frontiera, ha ricoperto l’incarico di telegrafista a Belluno e in seguito di batteriologo nell’ospedale militare di Padova e di Milano.  Ricordi di guerra indelebili che gli hanno temprato l’anima. Chi come lui li ha vissuti, mai li potrà dimenticare…

Ho conosciuto un uomo meticoloso, quasi maniacale nell’annotare ogni vicissitudine della sua vita. Una vita dominata dalla passione e dalla voglia di fare. Un collezionista di francobolli, di orologi da taschino, di vino, un appassionato di cinema tanto da girare lui stesso negli anni ‘60, quando all’epoca era consigliere del Cine Club di Treviso, dei cortometraggi.  

In seguito, accompagnare il figlio Giancarlo alla pratica dello Judo, lo ha portato a diventare il Presidente che ha permesso ad una piccola realtà sportiva non militare, di aggiudicarsi il 2′ posto nel “Gran Premio Società” nel 1972. Riporto le sue parole: “Un risultato incredibile voluto e conquistato contro tutti. Ci sono stati momenti anche tristi come la morte di alcuni giovani atleti, oppure il momento in cui ho preferito lasciare ad altri la guida, perché gli anni aumentavano…”                        

Durante il pomeriggio in cui l’ho conosciuto l’ho seguito attentamente ascoltandolo nei racconti della sua vita. Mi conduceva orgoglioso mostrandomi le sue tante collezioni. La più sbalorditiva è stata quella del modellismo ferroviario, non potete immaginare! Sono rimasta senza parole… e questo già la dice lunga! 😉 Trenini e vagoni di tutti i modelli e di tutte le epoche, riprodotti minuziosamente! Un’intera stanza dedicata con plastico annesso, e una rete ferroviaria in scala nel giardino. Fantastico!

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Gualtiero Basso

Ma non finisce qui, perché una volta a tavola i discorsi si sono spostati sui piaceri legati al gusto, fino a far saltar fuori un fungo, o meglio… tre porcini! La passione di Gualtiero per i funghi è nata negli anni ’70 dopo aver conosciuto lo scrittore e micologo Fernado Raris.

Gualtiero mi ha spiegato che il termine porcino si riferisce a più specie e più precisamente al boletus edulis, al boletus aereus, al boletus reticulatus e al boletus pinicola. Le sue varietà preferite per la qualità e per il gusto, sono quella dell’aereus e della pinicola. Detto questo, pronti via con la sua zuppa di porcini!

La zuppa di Porcini di Gualtiero

Per 4 persone

  • 300 gr. di porcini  freschi varietà boletus aereus o pinicola
  • ½  cipolla
  • 1 cucchiaio di farina
  • 80 gr. di burro
  • prezzemolo, sale e pepe q.b.

Tagliare i porcini a fettine sottili di 2/3 mm. Quindi porli in una casseruola in cui si è fatta soffriggere nel burro fuso la cipolla.

Cuocere lentamente i funghi per una mezz’oretta unendo al bisogno del buon brodo.

Nel frattempo passare al forno delle fette di pane su cui, una volta dorate, spalmare un velo di burro.

Porle quindi in piatti fondi, e cospargerle con i funghi preparati.

A fine serata Gualtiero mi ha voluto regalare un suo cortometraggio girato nel 1960. Anch’io sono un’appassionata di cinema. Quando gli ho detto che il film che amo di più è  “Nuovo Cinema Paradiso”, lui prontamente mi ha risposto: “Il mio è Balla coi Lupi!”

“Tutto nasce dall’uomo, tutto ritorna all’uomo…  tratto dal film Balla coi Lupi”

 

 




“Ricordo quando mio padre preparava i lampascioni…”

La ricetta : “I Lampascioni al forno”

Mio padre si chiamava Aldo. Nacque il 12 Marzo del 1933 in un paesino del Mantovano. Un creativo artista del marmo con una grande passione per il suo lavoro… quando si è spenta, si è spento lui.

Beato chi non perde la passione…

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Di lui mi rimangono pochi oggetti. Una macchina fotografica che ha fermato molti istanti della mia infanzia, un vecchio portafoto che ci accompagnava durante i nostri viaggi, e un’armonica a bocca. Ricordo che per anni, dopo che se ne è andato, spesso mi fermavo ad annusare l’odore del legno su cui appoggiava le labbra per suonarla. Arrivò un giorno in cui non l’ho sentito più…

Adorava il suo lavoro, adorava viaggiare, adorava la musica, adorava il vino e il cibo, adorava andar per boschi a cercare funghi… Un carattere difficile che ha reso il nostro rapporto a volte conflittuale anche se pur sempre intenso e profondo.

Posso solo dire per certo che, quando se n’è andato lui, se n’è andato un pezzo del mio cuore.

“I rapporti conflittuali possono essere veri e profondi, perché in essi, ognuno gioca la propria vera essenza alla ricerca di consonanza con l’essenza altrui…” Alessandra Paolini

Ormai sono passati tanti anni, ma per me è come se fosse ieri. Oggi nel giorno del suo compleanno voglio ricordarlo con dei profumi e dei sapori della memoria che, riportandomi con la mente al passato, mi ricordano il tempo che fu…

Oltre ad amare molto le frittate, che lui stesso preparava meticolosamente, ricordo in particolare un cipollotto selvatico, il lampascione, che aveva imparato ad apprezzare e a cucinare da sua madre. Io stessa ne vado ghiottissima se trovo chi sa prepararlo senza che  il caratteristico sapore amarognolo abbia il sopravvento.

Nonostante il suo nome dialettale riconduca spesso all’abitudine di dare dell’ottuso a qualcuno, le sue proprietà culinarie e medicinali smentiscono qualsiasi riferimento legato a questa consuetudine.

Questo vegetale coltivato quasi esclusivamente nelle regioni meridionali, per poter essere raccolto ha bisogno di almeno quattro anni di crescita. Oltre a contribuire ad abbassare i grassi e gli zuccheri nel sangue, ha proprietà antinfiammatorie e lassative.

Ma ora passiamo alla  preparazione dei “lampascioni al forno”

  • Iniziare col pulire i lampascioni privandoli del rivestimento esterno.
  • Quindi procedere tenendoli a bagno in acqua per circa sei ore, in modo da far perder loro un po’ del sapore amarognolo.
  • Scolarli, asciugarli, e  inciderli alla base con un taglio a croce.
  • Infine disporli su una teglia unta e passarli al forno cuocendoli a 180’ per circa mezz’ora.
  • Condirli con olio extra vergine d’oliva, quello buono, sale, aglio, e peperoncino.

Io,  li adoro!

“Ciascuno di noi ha la sua madeleine, il sapore che gli ricorda la meglio età. Non è solo rimpianto dei sapori d’antan, ma uno stato di grazia da ricreare. Una ricerca del tempo perduto… E quando ci riesce, proviamo uno stupore infantile, una gioia bambinesca che ci fa socchiudere gli occhi di piacere… è tempo ritrovato…” Marino Niola, antropologo




“A mio figlio Andrea… era l’8 Dicembre del 1989”

La ricetta : “La Fonduta”

Era l’8 Dicembre del 1989,  era notte quando nacque mio figlio…

Mi tornano in mente le parole della scrittrice americana Erma Bombeck…

I figli sono come gli aquiloni,
passi la vita a cercare di farli alzare da terra.
Corri e corri con loro
fino a restare tutti e due senza fiato…
Come gli aquiloni, essi finiscono a terra…
e tu rappezzi e conforti, aggiusti e insegni.
Li vedi sollevarsi nel vento e li rassicuri
che presto impareranno a volare.


Infine sono in aria:
gli ci vuole più spago e tu seguiti a darne.
E a ogni metro di corda
che sfugge dalla tua mano
il cuore ti si riempie di gioia
e di tristezza insieme.

Giorno dopo giorno
l’aquilone si allontana sempre più
e tu senti che non passerà molto tempo
prima che quella bella creatura
spezzi il filo che vi unisce e si innalzi,
come è giusto che sia, libera e sola.


Allora soltanto saprai
di avere assolto il tuo compito. 

Così è giusto che sia…

Sfogliando delle vecchie foto  la mente è tornata in un lampo a quei ricordi, ormai ventitré anni fa… Quanta paura, essere genitore fa cambiare tutto, la responsabilità di una vita per la prima volta. Non ero pratica di bambini, essendo figlia unica non ero molto esperta.

Ricordo che, quando lo vidi per la prima volta aveva una testa terribilmente allungata. Avete presente i Simpson?  Chiesi subito:  “Ma rimane così?” Mi spiegarono che era la conseguenza delle difficoltà che avevo avuto nel parto. Il gonfiore scomparve in fretta a differenza della suo pianto… uh che frignone! Piangeva sempre, e con che voce! 🙁

La sua prima parola “brumma”, macchina…

In realtà la passione per i motori l’abbiamo entrambi nel DNA. Però, a differenza di lui,  io ho i miei limiti! Certe volte lo strozzerei! E’ arrivato a portarmi una portiera in camera! Senza parlare di quella volta che aprendo la doccia mi sono trovata davanti ad un pneumatico! Più che in una camera lui vive in un officina!

Ma non solo, perché essendo appassionato di tecnologia sperimenta di tutto! Avete presente l’eccentrico inventore Emmett “Doc” Brown nella trilogia di Ritorno al futuro? Ecco, lui… uguale!!! 😉

Andrea è un po’ particolare, come me dicono.  A volte orso e solitario, ma per lo più amabile e sensibile. Solo chi lo conosce bene lo sa.

Mi ricordo quando anni fa felice mi portò a casa da scuola la sua ricetta della fonduta. La provammo subito. La sto leggendo ora esattamente come me la scrisse lui:

La Fonduta di Andrea  (dosi per una persona)

  • 100 gr. di fontina DOP
  • 3 cucchiai di latte
  • 15 gr. di burro
  • 1 uovo  

Amalgamare tutti gli ingredienti e far cuocere a fuoco lento mescolando fino ad ottenere un composto omogeneo.

Oggi Andrea compie gli anni. La nostra vita negli ultimi tempi è cambiata, io spesso sono assente, ma di una cosa sono certa, come un aquilone, lui ormai ha imparato a volare.

Andrea

Andrea




I radici e fasioi della Jija

La ricetta : “I Radici e i Fasioi”

Apro le finestre e il mio sguardo si perde… ricordi di campagna, di risate di bambini, di profumo di fieno, di piedi scalzi sull’erba, di vendemmie festanti e di sonni tranquilli.

Solo chi ha avuto un’infanzia passata così, mi può capire. Può capire quella voglia di tornare con la mente ai ricordi, perché la Terra chiama, riportando ad essi.

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Ogni anno, esattamente il 29 Giugno – ricorrenza di Santi Pietro e Paolo – venivo accompagnata da mia nonna Jija in campagna, nella piccola Lorenzaga di Motta di Livenza a Treviso. Finite le scuole, finito il collegio, finiti i ritmi severi della vita cittadina, finalmente arrivava la fatidica data. Trecento km e via… e tutto cambiava. Non più palazzi ma campi di vigne, pannocchie, oche, galline… una festa! Appena arrivata mi aggiravo da sola a piedi scalzi sull’erba, come in esplorazione, come per riappropriarmi della mia natura, della mia dimensione…

E ora sono qui, ancora una volta, dopo tanti anni, perché la Terra chiama, e non la si dimentica… E’ l’una di notte.

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Affacciata alla finestra contemplo il paesaggio.  In compagnia del canto delle cicale e dei fruscii degli alberi la mente viaggia…

Ricordo mia nonna Jija, una donna contadina conosciuta da tutti per la tenacia e per la determinazione. Ricordo le mattine, quando mi svegliavo all’alba. Col canto del gallo tutto riprendeva il normale ciclo naturale.

La guardavo nella mungitura, nella preparazione del burro, mentre con la falce tagliava l’erba…  La vita in campagna è di grande insegnamento, i momenti vissuti così di grande intensità.

Non dimentico i sapori, quelli di una volta… Il latte appena munto, il pane con il burro fresco, e… i radici e fasioi!  Una purea di fagioli con cui si condisce il radicchio fresco.  Vi assicuro, una vera prelibatezza!

Mia nonna durante l’estate preparava spesso questo piatto, uno tra i miei preferiti. Oggi la voglio ricordare così.

Radici e fasioi

   Preparazione:

  • In un tegame mettere i fagioli borlotti (fasioi) precedentemente ammollati per dodici ore circa.
  • Unire della cipolla tritata, due patate a pezzi, un gambo di sedano a tocchetti, due ossa di maiale, della cannella in polvere, sale e pepe quanto basta.
  • Fare cuocere lentamente fino a che i fagioli saranno morbidi. Quindi, estrarre le ossa e passare il tutto fino ad ottenere una crema densa e omogenea.
  • Nel frattempo far rosolare dei pezzettini di lardo, che a fuoco lento rilasceranno il loro naturale grasso da usare come primo condimento del radicchio.
  • Servire in tavola il radicchio (radici in dialetto), con  la salsa di fagioli che verrà cosparsa sopra come tocco finale.

A proposito di questa ricetta, è usanza locale dire mentre la si mangia: “Magnar e morir”




“I tortelli di zucca della Gisella raccontati dallo chef Fabio Mazzolini”

La ricetta: “I tortelli di zucca mantovani”

E’ un po’ presto per la zucca lo so, ma il mio pensiero va alla mia cara nonna Gisella. Ho voluto ricordarla così.

Ve l’ho mai detto che sono di origini mantovane…?  Ebbene si!  Li la zucca è una vera tradizione. Ricordo quando mia nonna Gisella mi preparava  i tortelli con la mostarda piccante, gli amaretti e… naturalmente la zucca!  Fantastici profumi e sapori… che ricordi!

Questo ortaggio originario dell’America Centrale,  oltre ad essere famoso per la festa  di  Halloween è conosciuto per le sue proprietà benefiche.  E’ ricco di vitamina A,  di minerali, di fibre ed  è povero di calorie. La sua polpa tritata è utile come lenitivo per le infiammazioni cutanee, mentre il suo estratto è indicato nei disturbi gastrici. In cucina poi trova spazio a molteplici  usi…  dai primi piatti,  ai contorni, ai dolci…

Bene, oggi vorrei ritornare a quei sapori e a quei profumi grazie al caro amico e chef Fabio Mazzolini. Un uomo legato alla natura e alla tradizione… un poeta della cucina.

Fabio, prima di darti il cucchiaio di legno per dirigere l’orchestra, mi racconti un po’ di te…

  • Sei uno chef di successo, ma soprattutto un uomo semplice, simpatico che mi prende in giro di tanto in tanto… Meglio che parli tu, se no lo sai che non mi fermo più… 😉 Come e quando è iniziata questa tua passione?

L’amore per la cucina mi è stato trasmesso dalla mia nonna materna. Gestiva una piccola trattoria di sua proprietà a Desenzano del Garda.  E’ li che ho iniziato a pasticciare con paste e farine…

  • La creatività di voi chef stellati a volte mi fa quasi paura. Ci facciamo due spaghetti aglio e olio mentre ne discutiamo…? Ci stai?

Certo che si Cinzia! Devi sapere che è il mio piatto preferito! Me lo preparo spesso abbondando con l’aglio che faccio fondere lentamente fino a trasformarlo in una morbida crema. L’unico inconveniente è per i poveri malcapitati che si trovano a parlare con me subito dopo! 😉

  • Ora dimmi la cosa che ti piace di più… e non fare lo spiritoso! 🙂 In cucina intendo!

Ora ti spiazzo! Anche se sembrerà strano adoro la cipolla in tutti suoi utilizzi!

  • Mi è venuta una fameee!! Mi prepari una frittatina di cipolle? L’adorooo! (Giuro che quando ho scritto questa domanda non sapevo la risposta precedente)

Ottima scelta… Opterei per una frittata con cipolla bionda a cui abitualmente aggiungo dell’erba di San Pietro!

Ora però bando agli scherzi! Ti passo il cucchiaio di legno, tocca a te dirigere l’orchestra!  Raccontami come fare i tortelli di zucca mantovani, con gli amaretti e la mostarda piccante… quelli della Gisella!

Fabio: Cinzia devi prendere della zucca mantovana della qualità delica.

Cinzia: Delica? Ma come faccio a riconoscerla?

Fabio: Che disastro che sei! Dai che ti metto la foto!:-) Ora tagliala a pezzi e cuocila nel forno per una mezz’oretta.

Cinzia: Fabio ma devo sbucciarla?

Fabio: Assolutamente no! Una volta cotta, schiaccia la polpa con la forchetta, unisci qualche amaretto sbricciolato, aggiungi della mostarda piccante di mele campanine, parmigiano vacche rosse (razza Reggiana), e sale e pepe quanto basta. E’ mia abitudine aggiungere all’impasto del ripieno dei tortelli, un pizzico di  polvere di caffè per togliere quella stucchevolezza data dalla dolcezza degli ingredienti. Per concludere non ti resta che procedere con la preparazione della pasta all’uovo e confezionare i tortelli. Un leggero condimento di burro insaporito alla salvia e voilà!

E ora,  mentre Fabio sta cucinando io molto seriamente vi dico che… lui è un vero artista! Un uomo che non ama celebrarsi, e che vive la propria passione semplicemente offrendola nelle proprie creazioni.




Una birra prego, ma… artigianale grazie!

La ricetta : “Il Tiramisù alla Birra”

Recentemente ho conosciuto tramite un amico comune, Marco e Mario, un artigiano del mobile e un agente immobiliare, due fratelli che hanno cambiato il loro percorso di vita dirottandolo verso il mondo della birra.  Il loro progetto è quello di far conoscere birrifici artigianali e diffondere cultura birraia.

Visto che la cosa mi ha incuriosito parecchio, sono andata a trovarli nel loro BeerShop Al Frate Birraiolo, e davanti a una birra mi sono fatta raccontare.

  • Dunque… com’è scattata la “scintilla” che ha trasformato la vostra vita?

Siamo da sempre consumatori e amanti della buona birra.  Spinti da uno spirito di cambiamento e dalla situazione economica attuale, abbiamo deciso di trasformare in lavoro la nostra passione.

  • Come reputate la cultura della birra in Italia?

Cinzia, possiamo dirti solo che si fa fatica a parlare di una vera cultura birraia in Italia. Uno degli obiettivi del nostro progetto è proprio quello di avvicinare più persone possibili al mondo della birra.

  • Quali sono le differenze principali tra la birra industriale e la birra artigianale?

La più grossa differenza tra una birra industriale e una artigianale, è che quest’ultima non avendo subito trattamento termico e nessuna filtrazione, mantiene lieviti “vivi e vegeti”,  e quindi in continua fermentazione.

  • Si sente spesso parlare di birra “cruda”.  A voi la parola…

Per birra cruda si intende una birra non pastorizzata, non microfiltrata e quindi libera di esprimere molte proprietà benefiche per il nostro organismo.

– La pastorizzazione è un trattamento termico sterilizzante condotto a 60 °C per circa venti minuti, impiegato dall’industria per eliminare dalla birra ogni microrganismo,  allungando la durata e standardizzando il gusto.

– Una birra non microfiltrata è una birra integra di vitamine, di antiossidanti e di lieviti vivi.

  • Sto scoprendo un vero e proprio mondo della birra artigianale.  Me ne descrivete alcune che vi hanno particolarmente colpito?

Per non far torto a nessuno, diremo che ogni birrificio artigianale ha la sua storia che merita di essere ascoltata…  Noi daremo ad ognuno il giusto spazio.

  • Gli amici scherzando mi prendono in giro perché amo usare i bicchieri “giusti” per il vino, per la birra, e non solo…  Vedo spesso bere birra dalla bottiglia.  Questa abitudine può penalizzare la degustazione?

Innanzitutto ad ogni stile di birra corrisponde il suo bicchiere.  Per quanto riguarda l’abitudine di bere direttamente dalla bottiglia, oltre a penalizzare fortemente la degustazione, fa ingerire molta anidride carbonica provocando  la classica “pancia da frate birraiolo”.

  • Donne e birra… Qual è la vostra opinione?

“Donne e birra” è un bel binomio da far crescere, in quanto troppe donne considerano la birra una bevanda amara. Cinzia, anche se sappiamo che ami la birra rossa… ti ricordi la birra alla ciliegia che ti abbiamo fatto assaggiare?  Eri entusiasta, profumi e sapori perfetti per l’abbinamento con una crostata di ciliegie!

  • Che cosa vi proponete per il presente e per il futuro con il vostro progetto?

Le idee tante… i progetti anche! Per ora diffondere buona cultura della birra, è la nostra massima aspirazione.  Le cose verranno man mano.

  • Birra e cucina… Mi raccontate una ricetta?

Certo Cinzia! Sappiamo che ti piace il tiramisù… ma l’hai mai assaggiato alla birra?

– Stesso procedimento del tiramisù classico,  l’unica differenza è che si devono inzuppare per bene i savoiardi nella birra.

– Una volta pronto servirlo fresco accompagnandolo con un boccale della stessa birra usata nella ricetta. Quando in bocca si incontreranno i due sapori sentirai… un’esplosione di gusto!

 

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