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Lo storico frantoio “L’Acropoli di Puglia” di Martina Franca

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Martina Franca in provincia di Taranto, una cittadina elegante e ricca di storia nel cuore della Valle d’Itria. L’ho conosciuta passeggiando lungo le sue strade e ammirando lo stile barocco delle sue case e dei suoi palazzi. Una città che mi ha particolarmente colpito per la cura e l’ordine con cui è tenuta. “Qui mangi pane e barocco  intitolava nel giugno del ’97 la rivista “Bell’Italia” a proposito del suo centro storico.

Fino a ieri ero da quelli parti per un breve periodo di vacanza. Unisco sempre l’utile al dilettevole visitando le realtà agricole delle terre che visito. Me ne è stata consigliata una che però purtroppo, a causa della mia partenza, non sono riuscita a vedere: lo storico frantoio L’Acropoli di Puglia”.

Lo ha fatto per me Vito Piepoli. Condivido con voi il suo racconto.

Lo storico frantoio “L’Acropoli di Puglia”

 di Vito Piepoli

Il mese di maggio si dice la messa nello spazio esterno antistante l’ingresso del frantoio “L’Acropoli di Puglia” di Martina Franca (Taranto), in attività dal 1889, della famiglia Lucarella, dove svetta una bella statuina della Madonna di Odegitria . Con questa visione benedicente comincia la visita all’antico frantoio oleario di ben centoventidue anni in compagnia di Beatrice Lucarella.

“Lui era Domenico il nonno di mio padre, poi Vincenzo, il papà di mio padre” ci dice Beatrice indicandoci delle foto in alto, poste subito all’interno del frantoio di famiglia. Entrando è cambiata la temperatura, si sta abbastanza freschi. Essendo collinare Martina, da un lato si scende e dall’altro si sale… quindi come frantoio è interrato. Non è molto grande, è rimasto com’era, nel centro della cittadina. E’ un frantoio semi – ipogeo, come conformazione e struttura. E’ “semi” proprio perché non è posto in cavità sotterranee ma leggermente al di sotto del livello stradale. La produzione è a freddo con macine in pietra e torchi idraulici.

L’azienda è mèta di visite turistiche e di gruppi di scolaresche per la riscoperta degli antichi mestieri e per far conoscere le diverse fasi di produzione quale la frangitura, la gramolatura, la spremitura, la conservazione e l’imbottigliamento. Continuiamo ad osservare all’interno del frantoio e ci lasciamo attrarre da segni e particolari a latere dell’attività principale. Vi sono dei ganci sul soffitto.

La maggior parte di questi ganci potevano avere più funzioni o appendere i caciocavalli e salumi in genere da stagionare. I ganci ad anello invece servivano per attaccare gli animali alle catene. Per la staffa di cavallo c’è  un duplice significato, il primo è quello di portafortuna. Il secondo riguarda l’uso del cavallo quale animale da ‘giro’, ovvero il quadrupede utilizzato dal frantoiano per far girare le molazze.

Anticamente, il luogo di trasformazione delle olive in olio era denominato “trappeto”, dal latino trappetum, ossia frantoi scavati nella roccia che testimoniano un’economia fiorente di un lontano passato, o anche dal greco trapeo  = pigiare o trepo = torcere o anche trapetes che significa appunto frantoio dal numero delle macine che anticamente erano tre, più piccole di diametro delle attuali, posizionate in basso e trainate da cavalli murgesi, asini, tipici della zona, o da buoi.

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L’Acropoli di Puglia

La produzione viene fatta proprio come tradizione comanda, prima la frangitura delle olive sotto la macina e poi la pasta ottenuta viene posizionata sui fiscoli, a forma di ciambelle, originariamente impagliati, che vanno l’uno sull’altro a comporre la “torre” , pronta per la spremuta sotto il “torchio”. Quattro presse presenti nel frantoio e, a dire della nostra guida, durante il periodo di produzione sono necessarie almeno  quattro – cinque persone per portare avanti la lavorazione.

Per fare una macina e comporre almeno una “torre” ci vogliono almeno tre quintali di olive e, secondo Beatrice, quest’anno l’annata dovrebbe essere abbastanza buona per la raccolta nelle tenute di famiglia che sono ubicate in agro di Martina Franca e Crispiano. Ciò che in realtà incide molto a livello di costi è il mantenimento della campagna. Soprattutto difficili da recuperare poiché si cerca di mantenere un prezzo medio di vendita al pubblico anche se è indispensabile per il consumatore capire che se si vuole mangiare bene e genuino il prodotto di qualità ha un costo.

Beatrice ci ricorda che, passando ad un altro prodotto della terra, dall’uva si ricavano eccellenti vini bianchi (bianco Martina) e rossi (Primitivo del Salento) tipici del territorio della Valle d’Itria. Anche il mercato del vino a livello globale è diventato difficile. Mi è capitato di avere un incontro con degli importatori russi, dice Beatrice, che chiedevano di pagare il vino sfuso a cinquanta centesimi al litro (un’assurdità!).

Tornando all’olio, la guida ci rassicura sul fatto che le olive raccolte e macinate presso il frantoio di famiglia non si raccolgono da terra anzi lei stessa ci dice che non si devono raccogliere da terra, perché “l’oliva è una spugna che al contatto con la terra non fa altro che assorbire l’humus, l’umidità e la muffa. I nostri terreni non sono trattati con diserbanti nocivi arando il terreno con l’uso di trattori per  eliminare le erbacce e impastare il terreno. La raccolta avviene per lo più per sfilamento dall’albero delle olive, ma se utilizziamo il braccio meccanico le olive vengono immediatamente raccolte dalle reti. E’ una faticaccia. Il nostro principale cultivar è caratterizzato da olive “coratina” ma anche da “leccina-nociara” innestate nella stessa pianta, il tutto frutto di alberi secolari. La raccolta viene effettuata nei mesi di novembre-dicembre, anche se molto dipende dal tipo di clima che si è avuto e dalla presenza di abbondanti o scarse piogge; la potatura avviene poco dopo la raccolta, con il sistema della potatura corta “.

Il prodotto viene apprezzato ed esportato negli Stati Uniti, in Europa nei paesi dell’Est, ed in molti paesi europei soprattutto in Inghilterra e Francia. In Italia viene adottata la vendita attraverso il sistema del door to door ovvero spedito direttamente presso le famiglie. Nel frattempo la visita continua e osserviamo alcune cisterne interrate piene di “oro giallo”, dove l’odore dell’olio fresco appena franto viene avvertito ancor prima della vista, cogliendone un profumo che inebria piacevolmente i polmoni, prima ancora che la coppa calata nell’olio ci venga avvicinata al naso.

Dopo un anno di conservazione, ci viene riferito, il prodotto rimane sicuramente di qualità, però non è più quel verde intenso, non ha quel sapore che pizzica, ma maturando perde un po’ qualcosa, com’è natura. Conosciamo Vincenzo, il secondo dei tre figli, anche lui attivamente impegnato nell’azienda di famiglia occupandosi principalmente del settore marketing e commerciale. Il filtraggio dell’olio grezzo viene effettuato con metodo “a bambagia”, proprio come si faceva una volta, con l’ovatta. Più che un filtraggio è una vera e propria sgrossatura.

La famiglia Lucarella oltre al frantoio ha una azienda agricola che produce anche altri prodotti alimentari di pregio, in vendita in una location ubicata in piazza Umberto oltre ad una linea di prodotti cosmetici naturali a base di olio extra vergine di oliva. “Produciamo anche un condimento balsamico, che ha quindici o ventuno anni di invecchiamento” – ha concluso Beatrice – che all’assaggio ci sembra più che un aceto, un vino da dessert e il mosto cotto di uva bianca, il “vin cotto” dalla particolare consistenza, prodotto col vecchio disciplinare. E a noi non ci resta che salutare e augurare al frantoio “L’Acropoli” lunga vita, per il gusto del nostro palato e la bellezza della nostra pelle.

 

 




Le ruote della vita, da calzolaio a ristoratore in un trullo di Martina Franca.

Peppino è solito dire… “Com dsc u cor toq”

Peppino, prima calzolaio e poi ristoratore. Tutto iniziò nel 1969 quando, ereditando un trullo poco distante dal centro di Martina Franca a Taranto, decise di intraprendere con sua moglie un’attività di ristorazione basata su piatti di cucina casalinga, tipici del territorio.

Il 3 giugno scorso hanno festeggiato cinquantasei anni di matrimonio.  Da questa unione sono nati tre figli, due dei quali collaborano con lui attivamente nel locale di famiglia, la ‘Trattoria delle Ruote’.

Ho conosciuto Giuseppe Ceci, Peppino, in una sera d’estate di poco tempo fa. Mi hanno portato degli amici dopo una passeggiata nella bella Martina Franca, cittadina elegante e ricca di storia nel cuore della Valle d’Itria. Il Prof. Piero Marinò la ricorda così:

“Qui mangi pane e barocco” intitolava nel giugno del ’97 la rivista ‘Bell’Italia’ a proposito del centro antico di Martina Franca. Fu il ceto dei galantuomini che, nella seconda metà del Settecento, decise di rendere  visibile la propria potenza economica avviando un processo di ristrutturazione e abbellimento delle vecchie case ‘a corte’ (piccole masseriole in paese), che costituivano le residenze dei signori.

Il paese si trasforma, come per incanto, in un autentico museo diffuso: portali barocchi e rococò, impreziositi da cartigli e cariatidi, capitelli  corinzi e piccoli  satiri, punteggiano le vie del paese. Panciuti ed eleganti balconi in ferro battuto occhieggiano dall’alto dei palazzi. Gli interni delle residenze vengono abbellite da affreschi nei saloni destinati all’accoglienza, ad incontri galanti, a piccoli concerti musicali.

Era giunta l’ora di cena, e la voglia di passare una serata in un locale tipico e ricco di storia ha fatto cadere la scelta su una Trattoria di quelle che piacciono a me, quelle con la T maiuscola, quelle dove l’atmosfera è calda e accogliente…

Con Peppino sono entrata subito in sintonia. Mentre lo ascoltavo nei suoi racconti guardavo l’espressione del suo viso tipica degli uomini vissuti con passione, tra lavoro e tanti sacrifici. A dire il vero qualcosa mi sono persa, ma solo perché il suo stretto parlare in tarantino non mi ha permesso di capire tutto.

Quella di Peppino è stata una vita di grande passione per la terra, per il cibo, ma anche per la storia. Quando ha capito che i miei interessi erano simili ai suoi, mi ha ‘letteralmente preso per mano’ conducendomi alla visita del suo museo. Una ricca collezione di reperti storici che mi hanno fatto perdere la cognizione del tempo fino a che, richiamata per la cena, ho raggiunto gli amici al tavolo. Quella sera farmi sedere è stato davvero faticoso…

Non solo Angelo, suo figlio, mi ha parlato di lui. Lo ha fatto anche un altro Angelo, in questo caso suo nipote.

Cinzia, zio Peppino è un uomo unico, un’ instancabile lavoratore vissuto all’insegna del sacrificio e del rispetto altrui.  La sua simpatia è contagiosa.  E’ un uomo umile che trasmette serenità, un buon esempio per tutti noi. Ho un ricordo di qualche estate fa , quando, nella trattoria dello zio Peppino andò in scena uno spettacolo stupendo, quanto inaspettato ed improvviso, uno dei ricordi più belli della mia vita.

Ero a cena, seduto ad un tavolo davanti al trullo con una coppia di miei amici musicisti veneti. In quell’atmosfera unica, con le cicale in sottofondo e sotto ad un cielo stellato, degustavamo  in allegria tutto ciò che di buono la dolce zia Graziella aveva preparato. I miei amici erano entusiasti e felici di aver scoperto la Puglia, sia per la cucina che per l’arte. Ad un tratto decisero di regalarci qualcosa per ricambiare. Chiesero una chitarra che noi trovammo nel giro di una mezz’ora e… ecco la magia! Iniziarono a suonare dando vita ad un concerto inaspettato.  Al tavolo cantavamo tutti, e pian pianino anche gli altri avventori si avvicinavano a noi fino a formare un solo coro di voci e di applausi.

Sotto quella luna tutto sembrava surreale…  Siamo andati avanti per ore, fino a notte fonda, perché nessuno voleva andar via, nessuno voleva rompere quell’incanto che la musica aveva creato. E’ un ricordo prezioso che ho vissuto in un luogo magico. I miei amici erano  il chitarrista Marco Anzovino e la cantante Marnit Calvi.

Anch’io non dimenticherò la sera passata li… Salutandomi Peppino mi ha detto: “Cinzia, a rumaste cuntente?” La mia risposta è stata un sorriso, e un deciso si!

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